«Così ho portato Rugova a Roma»

«Così ho portato Rugova a Roma» Al presidente Milutinovic dissi: «Se lo trattenete, sarà come un'arma scarica nella lotta per la pace» «Così ho portato Rugova a Roma» Don Paglia: una telefonata, poi la lunga trattativa don Vincenzo Paglia Avevamo provato così tante volte a prendere la linea telefonica da Belgrado a Pristina che quando finalmente, lo scorso 6 aprile, sentii squillare il telefono dall'altra parte, quasi non ci credevo. Potevo immaginarmi la scena: il vecchio apparecchio nero di bachelite sul tavolino al secondo piano della casa del mio amico Ibrahim Rugova; il suo studio con la collezione di minerali provenienti da tutto il Kosovo. «Comment vas-tu?», come stai?, gli chiesi, perché tra noi parliamo francese. «Finalmente ti ho raggiunto». «Sono a casa, come al solito - rispose Rugova -, fisso il caminetto, con la mia foto insieme al Papa appesa sopra. Ma non ci sono più giorni normali. Sto bene. Sono solo un po' stanco, non dormo più, ma sto bene, e così pure la mia famiglia». Ricordò il nostro primo incontro nella comunità di Sant'Egidio a Roma. Abbiamo parlato di altri amici nel Kosovo, alcuni dei quali erano stati dati erroneamente per morti «Non posso dirti molto di più - proseguì -. Le comunicazioni sono così difficili. Sono molto preoccupato per il mio popolo e le sue grandi sofferenze». «Anche noi siamo preoccupati - risposi -. E' per questo che siamo a Belgrado e siamo con voi. Che ne diresti di lasciare il Kosovo per Roma? Daresti un contributo maggiore per risolvere la situazione?». «Perche no? Ci verrei, se e quando le autorità di Belgrado mi permetteranno di lasciare il Paese». La cosa importante ò che Rugova era vivo, anche se non poteva parlare apertamente e non aveva la libertà di movimento. Rientrato a Roma, Mario Marezziti, il portavoce della comunità, si assicurò che 0 governo italiano e il Vaticano sapessero che cosa avevamo intenzione di fare. L'Italia offriva supporto logistico e incoraggiamento. Ma nessuno ci aveva dato un mandato; c'era solo la nostra determinazione. E ora veniva il difficile: il governo di Belgrado. La prima prova arrivò durante un bombardamento, nel ristorante semideserto dell'Hotel Inter-Contincntal. A cena con uno dei viceministri di Milosevic, ripetevo: «Rugova è an pacifista sincero. Se volete uscire da questa situazione, deve venire in Occidente, a Roma, pei esempio. Altrimenti tutti penseranno che avete una pistola puntata alla sua tempia». Per tre giorni ci furono altri incontri febbrili finché potei incontrare Milan Milutinovic, il presidente della Serbia. Gli dissi: «Dovete capire che se trattenete Rugova, lui sarà come un'arma scarica nella lotta per la pace». Milutinovic rispose che avrebbe studiato il caso. Dal 10 aprile ci sono stati segnali contraddittori Intermediari dalla Serbia andarono a trovare Rugova. Il suo tema ricorrente era: «Serbi e albanesi possono e devono vivere insieme. Gli albanesi devono tornare in Kosovo. Dovete smettere di cacciare il mio popolo dal Paese. Questa ò la nostra terra e possiamo e dobbiamo vivere tutti qui insieme». Intanto Rugova appariva in tv a Belgrado con Milosevic e denunciava la campagna di bombardamenti della Nato. Due settimane più tardi il ministro dell'Informazione dichiarava che stavano studiando il rilascio di Rugova «se e quando potrà andare a Roma, com'è stato richiesto dalla Comunità di Sant'Egidio». Sebbene la sua situazione fosse terribile, Rugova aveva un ruolo importante. Aveva pagato un prezzo per aver incontrato Milosevic, ma guardava al futuro. «Ho incontrato Milosevic e gli ho detto che se vogliamo vivere su questa terra dobbiamo parlarci direttamente - spiegò -. Gli ho detto che la guerra etnica non è inevitabile, che questa è una guerra di eserciti, non di popoli». Finalmente la settimana scorsa ci arrivò da Belgrado la telefonata del ministro Dini: «Rugova vuole venire a Roma. Potete venirlo a prendere». Rugova si mise attorno al collo la sciarpina di seta - il (look Rugova» e volò qui con la famiglia e l'assistente. Ora può tornare a svolgere il suo ruolo di traghettatore del Kosovo fuori dalla guerra, dentro la pace. Stanco, povero e sofferente come il suo popolo, è ancora il Gandhi dei Balcani: «Ti mio popolo non può rimanere eternamente in esilio - ha detto appena libero -. Deve tornare alla sua terra. I serbi devono lasciare il Kosovo. La sicurezza, per entrambi, dev'essere garantita da una forza di pace internazionale, che comprenda Paesi Nato e altri. Tutte le armi devono essere depositate, da tutte le parti, compreso l'Uck. Questi ul tùiu sono patrioti che hanno dimostrato la necessità dell'autodifesa. Ma ora è il tempo della politica e io sono certo che anche l'Uck è una forza politica che favorirà una soluzione politica. La cornice saranno gli accordi di Rambouillet, che abbiamo firmato, mentre i serbi no. Sarà dura, ma l'essenziale è chiaro». Qui sopra il leader serbo Milosevic A destra don Vincenzo Paglia Don Vincenzo Paglia è esponente di Sant'Egidio, comunità di cattolici Indipendenti che cercano di negoziare accordi di pace In tutto il mondo.