Canova batte Appiani sul ring della modernità di Marco Vallora
Canova batte Appiani sul ring della modernità Canova batte Appiani sul ring della modernità Marco Vallora MONZA I accolgono sulla soglia del Serrane di Villa Reale, i due ritratti di Canova e di Appia- ni, disponibili anfitrioni, non sai quanto riluttanti ad accogliere la singolare ed ardita proposta di questa mostra a tesi, dedicata a due imprescindibili Dioscuri del Neoclassicismo, di cui il curatore vuole sottolineare in particolare il suffisso progressivo Neo, come moderno, anzi, come reale apertura alla contemporaneità (e se volesse soltanto significare «di nuovo» in senso nicciano di eterno ritorno?). Renato Barilli, secondo una tesi già affrontata ne l'Alba del Contemporaneo (Feltrinelli, 1996) nell'aprire il catalogo Mazzetta non ammette ambiguità: la mostra non vuol essere il surrogato di una doppia, impossibile retrospettiva. Si tratta semmai di una originale tesi critica da verificare con quelle poche opere che le difficoltà logistiche di spostamento gli permettono di esporre. Ma soprattutto non ha esitazioni: i due artisti li vede proprio come armati paladini di quella deità del Moderno, che invece faceva sorridere di sufficienza l'amaro Leopardi, in un profetico dialogo sui rapporti caini iba li ci tra Moda e Modernità. Guardiamoli in faccia, questi due Krsonaggi, e cerchiamo di leggere la -o reazione. Obbiettivo, inserito nel proprio universo ancora legato all'antico, Andrea Appiani nell'autoritratto quasi monocromo (non a caso inscritto in un ovale classicheggiante, anche se datato 1823) si concede in fondo come «una forza del passato», per dirla con Pasolini: uno sguardo elettrico, giacobino, che ci ficca addosso, quasi un pugnaletto La Prudenza, » . à l e i e o , e a o o el o ci to di sfida per saggiare la nostra resistenza, il corpo sbozzato in stile compendiario, leggermente ruotando di profilo come per incidere la propria veloce sagoma su un antico cammeo d'imperatore-citoyen, lo spumeggiante bianco del jabot alla André Cnénier e la cinerina parrucca che sta quasi per emanciparsi e trasformarsi in capigliatura borghese. Certo lo diresti più il rigido conte Alfieri che non un inquieto pre-romantico alla Foscolo. Invece, quando si volge all'amico Canova, per un ritratto «alla pari» (e siamo soltanto nel 17901) l'atmosfera appare assolutamente diversa. L'uomo, che non a caso non ci fìssa, e che guarda perdutamente in un vuoto sfuggente, è effettivamente un uomo della modernità, i riccioli scomposti che non hanno mai conosciuto la rigidità impomatata di una parrucca, il naso forte da stratega o da musico cherubiniano, le labbra volitive che vorrebbero affrontare una tirade inquieta e veemente ma che rimane come addensata, «bloccata» in quel vuoto carico d'irrequietudine. Lo sfondo per questo Canova (e il suo stesso sguardo) sono elettro-magnetici, allarmati, temporaleschi: strane nervosità indicibili si nascondono dietro quella lavalliere, cosi preco- cernente Biedermeier. Le due effigi paiono lontane di secoli. Canova, l'artista-anfibio dei marmi politi, è anche l'orfico annunciatore enigmatico del Monumento a Maria Cristina d'Austria, con quella voragine spettrale, quella porta del Nulla, verso cui s'avviano tutti i provati protagonisti della scena marmorea, come risucchiati da una forza magnetica, ipnotica. Questa si, che sembra evocare lo spettro di un futuro minaccioso. Ma Appiani? Quello che appunto lascia perplessi nella mostra, e che in fondo indebolisce un poco la tesi del «moderno» di Barilli, e proprio questa convinzione, difficile da condividere, di poter sovrapporre Appiani e Canova come «grandi omologhi» di questo accostamento alla contemporaneità. Perché un conto è sostenere teoricamente (con la complicità di Alessandra Zanchi) questa sorprendente equivalenza, di fonte al Moderno, di due artisti tanto lontani; un conto ammettere pragmaticamente l'efficacia di poter concludere questa mostra al Serrane, sfociando naturalmente nella Sala di Psiche affrescata da Appiani. Ma appunto: proprio nel confronto con le opere, quell'ipotesi ci sembra frantumarsi. Se è vero che in Canova sempre coesistono quei va due poli-dilemmi tra una volontà frigida di Forma polita e l'abisso friabile di un Vuoto abissale, questo, assolutamente, in Appiani non ai manifesta. «Energetico» certo: ma non lo erano anche Donatello, Giorgio Martini e Giulio Romano? Appiani, in fondo homo napoleonicus, più vicino a David e Flaxman che non alle lusinghe stendheliane della posterità, rimane ancora troppo legato all'impianto burroso e languido di quella pittura che ha conosciuto nei suoi viaggi di studio, da Domeràchino a Reni a Correggio: ih fondo fi suo sfumato, o meglio sfibrato, è ancora tassesco e se ci può convincere il parallelo col Piede, davvero non riusciamo a intravedere in lui quei «motivi che verranno ripresi da Boccioni» e le assonanze con Hodler o Goya, soltanto per certe configurazioni processionali dei suoi fregi, intesi come prefumetti. Cosi, sono le morbosità indicibili di Canova sottese alla pelle silenziosa del marmo ad attrarci, non il suo dubbio up to date da internauta, l'ipotesi che «Canova scopra l'esistenza del Kitsch e vi renda omaggio» come un qualsiasi Jeff Koons (foto in catalogo) o gemello Capmann, oppine che proponga una profondità bidimensionale ottenuta «quasi grazie al software di un computer». Ma siamo poi così sicuri che Canova abbia bisogno di questi ricostituenti Saub, di dover scimmiottare Brancusi per sentirsi ancora in salute? Canova • Appiani. Alle Origini dalla Contemporaneità Monza. Serro ne della Villa Reale. Orario 10/13, 15/19. Chiuso lunedì. Fino al 25 luglio 1999. Catalogo Mazzetta due poli-difrigida di Ffriabile di uassolutamenmanifesta. non lo, GRomhv La Prudenza, affresco di Andrea Appiani. A destra Danzatrice con II dito al mento di Antonio Canova
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