Comiso adesso si chiama «Peace Town» di Francesco La Licata

Comiso adesso si chiama «Peace Town» Nell'ex base della Nato i profughi vivono increduli il loro primo giorno senza la paura della guerra Comiso adesso si chiama «Peace Town» / volontari: abbiamo tutto ciò che serve Qui l'unico pericolo è la burocrazia Francesco La Licata inviato a COMISO Chissà cosa prova il «Popolo in fuga», ora che non ha più il fiato sul collo della polizia serba, delle varie milizie, la macedone, le divise albanesi Penserà, questa umanità dolente, di essere finita in un'isola felice. Anche se la struttura della «Peace town», come 0 sindaco di Comiso ha ribattezzato l'ex base Nato, mantiene la struttura di un tempio al Dio della Guerra. Quali sono i pensieri che passano per le menti di uomini, donne, vecchi e bambini, che fino a ieri pativano fame e malattie ed oggi possono permettersi una colazione «vera» alle 7 del mattino? Certo, è difficile dimenticare la rabbia per le ingiustizie subite, il dolore per la perdita dei propri cari, della propria terra, degli affetti. Ma questa prima domenica senza l'angoscia della morte in agguato, deve essere davvero il primo giorno di felicità. Felicità è stare in tuta a tirare calci al pallone sotto il sole caldo e dopo una colazione a base di latte e biscotti. Sembrano felici e abbronzati i piccoli kosQvari che la mattina presto hanno invaso il parco giochi. E' indulgente lo sguardo dei genitori che non temono più pericoli per i piccoli. Si incontrano, i nuclei familiari, quelli arrivati sabato, gli altri arrivati ieri. I balconcini delle villette si colorano del primo bucato. Già, i bambini. Sono tanti: più di centocinquanta. Qualcuno sta male, come i gemelli Orin ed Erin Kashell, colpiti da una sospetta broncopolmonite, o come la piccola Verel, 13 mesi, ricoverata per un'ernia inguinale. Ce la faranno, dicono i medici dell'infermeria prima di smistare i pazienti all'ospedale di Ragusa. Felicità è un bambino biondo che gioca con un cucciolo. Anche lui è un sopravvissuto. Lo avevano abbandonato, ora ha tanti amici. E' stato chiamato «Roccazzo», il nome della contrada dov'è stato trovato. Non mangiava chissà da quanto, adesso non riesce a muoversi tanto è sa^ip,.. Ancora, deoujxitp,.jtovece, è il piccolo Egzòn che i militari chiamano «Peter Pan». E' proprio fragile, ma vivacissimo. E arrivato col padre, Rexhep. Della madre non si sa più nulla. «Siamo fuggiti io ed Egzon, mia moglie l'ho persa di vista. E' stato terribile, ho visto i cadaveri caricati sui camion». E come non leggere, invece, felicità negli occhi di Bucurije Vescia; e del marito Sahjt. Cosa li ha resi contenti? Dn telefonino. La possibilità di comunicare coi cugini che stanno in Italia da cinque anni. Bucurije tira fuori timidamente dalla tasca dei pantaloni blu tutta la sua vita: un bigliettino lacero con quattro o cinque numeri di telefono. Lo porta con sé da quando è scappata verso la Macedonia, da aprile. Con Sahjt ha camminato notte e giorno per i boschi e i monti del Kosovo. La polizia serba li ha picchiati, la milizia macedone, dicono, non si è comportata bene. Quel foglietto è tutto ciò che rimane della famiglia, i recapiti dei cugini che vivono da tempo in provincia di Treviso. E' incredula, Bucurije, quando daj telefono cellulare datole da uno elèi giornalisti, il collega Franco Viviano, ascolta la voce della cugina. Una raffica di parole, gli occhi che ridono, lo scambio di notizie, l'apprensione per i familiari rimasti in Kosovo. Per una piccola felicità, un fardello insopportabile di memoria triste. Imer Serbati è l'unico ad indossare giacca e pantaloni. Le sue mani non sono da contadino e infatti scopriamo che è un professore di letteratura albanese. Insegnava in un liceo di Pristina. Il prof. Imer, che ha 62 anni, è arrivato con la moglie, Naile. Ha scritto due libri di poesie, il secondo sul tema delle persecuzioni in Kosovo. Dove sono? «Li ho lasciati seppelliti nella mia casa». Ha scrìtto durante questo ultimo, lungo viaggio? Gli occhi chiarì gli si intristiscono, abbassa il capo e offre un foglio di carta: «Nella mia terra/ sta tornando il Medioevo. Artigli selvaggi/ ci strappano il cuore. Tu, mio vicino/ che ancora non hai capilo/ rifletti: siamo entrati/ nel secolo/ dell'Umanità che si abbraccia. Ed è felicità anche quella che provano, i trecento volontari di «Peace town» da quando si prendono cura del «Popolo in fuga». Ragazzi siciliani, giunti da città, paesi e contrade, molti appena tornati dai Balcani. Gente instancabile che fa dire a Ezio Galanti, coordinatore della protezione civile: «Sono loro l'orgoglio della nostra missione». Poi fa il punto della situazione e precisa: «Non sono più necessari abiti usati, servono indumenti più leggeri per i bambini. Abbiamo scorte di cibo a sufficienza ma sono gradite verdure per i minestroni e liofilizzati». Ma la punta di diamante dell'organizzazione rimane la cucina dei volontari del gruppo «Malgrado tutto» di Lamezia. Quaranta «furie della natura» che riescono a cucinare per cinquemila persone, coordinate da Raffaello Conte. Anche loro erano a Burrel e a Kukes. Dice Raffaello: «Ho visto i bambini morti nel fango. Ho visto morire la gente per denutrizione». Ce la farete, quando arriveranno tutti? «Certamente, perbacco. Abbiamo pure imparato la loro cucina. Sappiamo preparare la loro zuppa preferita, l'abbiamo chiamata .'Zuppa Arcobaleno", col nome della missione. Se non ci si mette di mezzo la burocrazia, non ci saranno problemi. Mangi pure tu la nostra zuppa?». Tre bambini con problemi sanitari non gravi sono stati trasferiti all'ospedale di Ragusa L'apprensione riguarda i familiari dispersi

Persone citate: Ezio Galanti, Franco Viviano, Kukes, Peace, Raffaello Conte

Luoghi citati: Comiso, Imer, Italia, Kosovo, Macedonia, Treviso