Stato sociale non di diritto

Stato sociale non di diritto La crisi del «wclfare» rischia di coinvolgere l'asse portante della Costituzione Stato sociale non di diritto Sergio Fois LO Stato sociale è una mistificazione. Questa è la conclusione alla quale è giunto, già da tempo, un illustre giurista quale Massimo Severo Giannini. La conclusione può sembrare esagerata, ma così non è, coinè ho cercato di dimostrare di recente in una relazione svolta all'Università di Cagliari, anche in rapporto alla difficile coesistenza con i principi e l'essenza dello Sta'.o di diritto. Il concetto c il fenomeno del cosiddetto Stato sociale sono altamente generici, particolarmente ambigui, per molti aspetti intrinsecamente contraddittori. I tentativi di specificare il concetto con una serie di più particolari denominazioni, e nonostante ogni sforzo per mettere tra di esso ordine e chiarezza, o non raggiungono il risultato, o aprono molto più difficili problemi. Tra le varie denominazioni, due spiccano più di tutte: quella di Stato sociale come «Stato neo-corporato», e quella di Stato sociale come «Stato di giustizia». La prima vorrebbe significale che lo Stato sociale si basa su una specie di struttura istituzionale - peraltro costituzionalmente non prevista - basata sulla «triade» Govenio-Sindacati-Conlindustria. Tale struttura funzionerebbe in base al principio di «concertazione», dal quale originerei)- Il ministro del Laboro vari tipi e forme di «patti sociali» capaci di imporsi anello alla rappresentanza parlamentare. Ecco: da un lato l'esistenza e il funzionamento di simile surrettizia struttura entra in rotta di collisione con il principio della sovranità popolare quale è oggettivamente accertabile e verificabile: dall'altro lato l'osistenza di governi di coalizione e l'esplosione dei fenomeni di imprevedibile autonomia sindacale e delle varie forme di cobas, tutto ciò pone intrinsecamente in crisi il funzionamento della struttura «neo-corporata», svuotando il suo proteso valore istituzionale. La seconda denominazione, «Stato di giustizia», vorrebbe significare che lo Stato sociale non tanto e non soltanto si preoccupa di redistribuire la ricchezza e di offrire diritti di prestazione, ma invece e specialmente che esso si basa sul l'amministrazione della giustizia affidata ai singoli magistrati e giudici. Essi sarebbero autorizzati a perseguire la «giustizia» (specie «sociale») in nome di «valori» non legislativamente predeterminati, basandosi sulle «esigenze» che i singoli casi concreti conter- ro. Bassolino rebbero e/o esprimerebbero; nel caso di conflitto con simili esigenze, i magistrati potrebbero anche prescindere dalla rigorosa osservanza della legge. I giudici opererebbero cosi con la massima dicrezionalità, e sarebbe «diritto» ciò clic essi in concreto ritengano sia tale: in questo senso, secondo Zagrebolsky, i giudici sarebbero i veri «padroni del diritto». Lo Stato sociale come «Stato di giustizia» implica quindi uno svuotamento della «soggezione dei giudici alla legge», e per altro verso tende a risolversi in mia realtà anarcoide, in quanto ogni singolo organo cho amministri la giustizia si prospetta come parte di un potere «allo stato diffuso». Ma: come si concilia tutto ciò col fatto che lo Stato sociale, nel e per il suo «interventismo», presuppone coerenza, omogeneità e (almeno relativa) stabilità dell'indirizzo politico e delle sue realizzazioni? Anche dai pochi cenni fatti risulta quindi che lo Stato sociale è, e non può non essere, in crisi. Ma tale crisi non riguarda soltanto lo Stato sociale, bensì è capace di coinvolgere in maniera grave lo Stato di diritto quale asse portante della nostra Co- stituzione. Il modo di concepire e far operare quanto lo Stato sociale tenta o riesce - pur ambiguamente - a essere, svuota il principio di legalità, corrode la separazione dei poteri, pregiudica l'effettivo rispetto delle principali garanzie costituzionali: confliggo - dunque con quelli che Bobbio e Giannini considerano gli aspetti essenziali dello Stato di diritto. Tutto ciò non basta: in nome dello Stato sociale si pretende di mettere in crisi l'effettiva garanzia dei più classici diritti di libertà, compresa la libertà d'opinione. Anche essi vengono infatti considerati non già quale fondamentale tutela dell'individuo, ma invece in funzione di un non meglio specificato o specificabile interesse collettivo e sociale! Uno studioso tedesco - Haberle - al quale s'inchinano molti dei costituzionalisti italiani, in nome dello Stato sociale giunge ad affermare persino che le limitazioni ai diritti fondamentali sono giustificate non solo dal «vincolo sociale» e dall «interesse della comunità», ma anche e specialmente dal fatto che esse all'individuo «indicano la strada per un "corretto" e sensato uso della sua libertà». Affermazioni di tal genere sono quanto di più illiberale si possa immaginare, e aprono la strada a forme di pedagogismo autoritario la cui pericolosità, specie in uno Stato di diritto, è difficilmente calcolabile. Il ministro del Lavoro. Bassolino

Persone citate: Bassolino, Bobbio, Giannini, Massimo Severo Giannini, Sergio Fois