L'ipocrisia del ritorno

L'ipocrisia del ritorno TACCUINO 61 mim UMAZIÓNE L'ipocrisia del ritorno Lietta Tomabuoni FA presto Clinton a dire «1 profughi debbono poter tornarejtt casa loro in piena sicurezza», faranno presto oggi i ministri degli Esteri del G8 a ripetere, frasi analoghe: su questo ritornoSi fltetìie un marò d'ipocrisia così vasto da diventare disinformazione. Come potranno centinaia di migliaia di profughi dal Kosovo, dispersi nel mondo, senza più un'identità documentabile, senza più niente, senza le abitazioni bruciate o ridotte dai serbi a garage per carri armati da occultare o distrutte dai bombardamenti, «tornare a casa»? Qualo casa, dove? Come potrebbero ritrovare adesso la loro condizione precedente, uguale in tutto tranne che nelle persecuzioni? Prometterlo è un inganno e una crudeltà per loro, una mistificazione per tutti gli altri, anche per quelli che hanno espresso solidarietà dando soldi o cose. Come par i serbi che vedono il loro Paese diventare sotto i bombardamenti una specie di Luna, un paesaggio di crateri e macerie, chissà quanto tempo e quante sofferenze ancora ci vorranno prima del ritorno o di una normalità: ammesso che la ricostruzione sia possibile, che valga la pena di compierla. In questa guerra che, dice Edgar Mono, «non vede mai il fattore umano», i patimenti sono già immensi: si potrebbe almeno evitare di prendere in giro le vittime, solo per far bella figura a un microfono o per poter pronunciare qualche frase altisonante nei consessi intemazionali. Si scopre che gli inglesi non sono poi così rispettosi delle opinioni altrui, che David Hare esagerava, ma forse non moltissimo, intitolando «Pravda» il suo testo teatrale di qualche an¬ no fa sui mezzi d'informazione in Inghilterra: pare che un altro drammaturgo, Harold Pinter, abbia passato diversi guai per aver detto in un suo programma televisivo tutto quel che pensava di male della guerra. La BBC, scrive il «Manifesto», s'è sperticata a dire e ripetere che si trattava «esclusivamente dell'opinione personale dell'autore», l'ha fatto rimbeccare da un sottosegretario alla Difesa monologante; e il ministro della Difesa l'ha accusato di «avere evidentemente una nuova occupazione». Avrà voluto dire la spia? Si scopre che gli italiani non sono poi così pettegoli. Sembra evidente che alcuni giornalisti (magari parecchi) sapessero dell'imminente arrivo di Ibrahim Rugova a Roma; molti sapevano certo che una parte della sua famiglia era in Italia da settimane. Eppure, nessuno ha detto o scritto una parola: forse per non mettere in pericolo l'operazione di trasferimento, forse perché pregati dal governo di tacere, forse per senso di civismo e di opportunità. Sembra impossibile che le cose stiano diversamente: che a esempio non siano i giornalisti a uscire, cercare notizie, far domande, interrogare le fonti, ma che siano le fonti a stabilire i contatti con i giornalisti, quando e come vogliono.

Persone citate: Clinton, David Hare, Edgar Mono, Harold Pinter, Ibrahim Rugova, Lietta

Luoghi citati: Inghilterra, Italia, Kosovo, Roma