«E' pronto un aereo italiano» di Giuseppe Zaccaria

«E' pronto un aereo italiano» LE SETTE VITE DEL FILOSOFO «E' pronto un aereo italiano» personaggio Giuseppe Zaccaria PRIMI di aprile, ristorante semideserto dell'hotel «Intercontinental» di Belgrado: don Vincenzo Paglia è a cena con un giovane esponente dell'«Sps», il partito di Milosevic, ed il giornalista che li ha presentati l'uno all'altro. Il capo della Comunità di Sant'Egidio ha ima posizione limpida: a suo giudizio,,, Ibrahim Rugova pensa davvero le cose che ha detto alla tv serba, è un pacifista sincero, ma finché resterà a Pristina chiunque sarà autorizzato a pensare epe parla «con la pistola alla nuca». Meglio dunque portarlo airestero, in Italia, e metterlo in condizioni di parlare liberamente. Il vice ministro serbo è d'accordo: appartiene a quella fascia giovane dei partito che si è sempre mostrata più aperta, intelligente, europea. Da un lato però ha timore di esporsi troppo sul piano interno, dall'altro teme sinceramente per la sicurezza di Rugova (troppo prezioso per Belgrado) e le modalità del trasferimento... Dopo due ore di discussione condotte a colpi di fioretto, Vincenzo Paglia tira fuori le unghie e sbotta: «Insomma, le mando un aereo del governo italiano...». In questo caso le fonti d'informazione sono, come dire, molto dirette, perché il giornalista che partecipava a quella cena ero io. Partendo da quelrincontro, i contatti hanno continuato a tessersi con discrezione estrema finché ieri pomeriggio Ibrahim Rugova è approdato in Italia: e questa breve storia già lascia intendere cosa farà. L'altra sera ha lasciato Pristina in auto con tutta la sua famiglia, il piccolo corteo scortato dalla polizia si è diretto fino al valico di Presevo (non il più vicino, ma il più sicuro) e di lì a Skopje, in Macedonia, dove un aereo italiano era pronto ad assicurare il trasbordo nell'emisfero delle libertà. L'altra settimana il presidente serbo Milan Milutinovic si era recato a Pristina per un incontro diretto col leader albanese. La cosa era servita a redigere una pubblica e comune dichiarazione d'intenti, ma lo scopo sostanziale di quella visita era di verificare ancora una volta la volontà di Rugova e definire le modalità del trasferimento (che immaginare semiclandestino sarebbe folle, non fosse altro per le dimensioni del «clan» che il presidente degli albanesi si è portato dietro). A partire da oggi, con ogni probabilità Ibrahim Rugova starà zitto: le cose che gli preme dire sono destinate ad un consesso europeo, e chi davvero conosca la sua storia personale e politica non può stupirsi più di tanto. Questo non è uomo che dopo una vita di battaglie e di galera avrebbe potuto cedere al regime serbo solo perché era ri- inasto nelle sue mani. In qualche modo lo è stato per tutta una vita, senza rinunciare a combatterlo quando serviva. Il presidente degli albanesi del Kosovo semplicemente rifiuta l'idea di una regione appiattita sulle posizioni dell'Uck, ed oggi costretta ad immaginare un futuro solo in termini di rifugiati e di protezione militare, sull'onda di una guerra e delle faide che ne seguiranno. A cinouantasei anni, ernesto filosofo che era partito dal villaggio di Trnec per approdare alla Sorbona - corso di studi con Roland Barthes - ha semplicemente visto crollare in pochi mesi quel che aveva costruito in quasi trent'anni. Nell'89 era stato proprio lui a scatenare con un manifesto firmato da più di duecento intellettuali la protesta albanese contro i mutamenti alla Costituzione appena imposti da Milosevic. Aveva Bacato l'iniziati¬ va con l'espulsione dalla Lega dei comunisti ed un nuovo arresto. Tutto questo non aveva modificato di un millimetro le sue scelte pacifiste: i giornali occidentali allora l'avevano definito «il Gandhi dei Balcani». Nei giorni scorsi, poco mancava che le stesse fonti non lo considerassero apertamente un venduto, o quanto meno un vigliacco. Il fatto è che questo maturo signore (che dal soeeiorno nari gino ha trasportato il vezzo di una sciarpetta di seta perennemente al collo) non ha passato la vita solo a combattere le prevaricazioni dei serbi, ma anche l'altra linea della politica kosovara, quella dell'estremismo. Lui ed i suoi amici (tutti quelli che le notizie «confermate da fonti Nato» volevano sterminati a Pristina alla fine di marzo) oltre alle privazioni ed alla galera avevano condiviso la sorda lotta con quella vecchia corrente marxista-leninista che oggi l'Uck trasporta in Dna, sia pure per traghettarlo verso altre, temporanee protezioni. Qui si parla di quei briganti kosovari che dai primi Anni Cinquanta e fin quasi alla caduta del Muro combattevano per una Grande Albania modellata su Tirana, sulla Tirana di Henver Hoxha, e combattevano questa guerra con attentati alle staziom di polizia jugoslave ed assassinii di «collaborazionisti». Poco più di un anno fa, quando Rugova era stato appena rieletto «presidente» del Kosovo albanese, quella fazione marginale aveva cominciato a prendere corpo, a ricevere finanziamenti dalla diaspora albanese. E progressivamente, con il troppo rapido sorgere di questa stella, Rugova ed i suoi erano stati emarginati, guardati con compatimento. Addirittura odiati, se è vero che pochi mesi fa all'ultimo momento era stato sventato un attentato che l'Uck aveva organizzato contro il «presidente». Questo dunque viene a fare, Ibrahim Rugova: ancora una volta si rimette in gioco, spie- Serà per conto degli albanesi cui è il più legittimo degli esponenti, votato e non cooptato in questa o quella rappresentanza) che con guerriglie pilotate dall'estero la convivenza non si raggiungerà mai. L'incontro tra il primo ministro Massimo D'Alema, il ministro degli Esteri Lamberto Dini e il leader kosovaro Ibrahim Rugova