Il giornalista Don Chisciotte scherzava con il fuoco

Il giornalista Don Chisciotte scherzava con il fuoco MORTE E SEGRETI Il giornalista Don Chisciotte scherzava con il fuoco retroscena Filippo Cecearalli INO Pecorelli, in ogni caso, qualcuno l'ha ammazzato... E in che modo, poi. Una sera buia, un posteggio, un giovane con l'impermeabile che fa toc toc sul cristallo della Citroen del direttore di Op e prima che questi faccia a tempo a prendere la pistola nel cruscotto, quattro revolverate, la Erima in bocca, il vetro infranto, i portiera dell'auto aperta e sangue dappertutto. Op: «Una raffica di notizie», recitava la pubblicità dell'ex agenzia trasformata in settimanale, con tanto di fori di proiettile a formare il logo, nero su campo rosso. Una manchette in seconda pagina avvertiva: «Al fine di tutelare la riservatezza delle nostre fonti e con essa quella di alcuni collaboratori autorevoli, in questo giornale non comparirà che la firma del direttore responsabile». Ucciso appunto vent'anni orsono. Era molisano, di buona famiglia provinciale. S'era arruolato giovanissimo con gii alleati che risalivano la penisola. Uomo d'ordine, anticomunista. Per qualche tempo aveva fatto l'avvocato, ma scrivere ed esprimersi attraverso i giornali gli piaceva da morire - nel caso di Mino Pecorelli l'espressione va intesa nel senso più assoluto e tragico. Quando questo accadde aveva 51 anni. Appariva elegante, secondo i moduli della Roma politica di quel periodo: giacche strette, collettoni, cravattoni, scarpe con fibbione; era molto cortese, un po' misterioso, talvolta curiosamente abbronzato. Giornalista troppo negletto in vita, visto e vissuto dai colleghi dei giornali più ricchi e affidabili con qualche anche ragionevole diffidenza: Pecorelli pubblicava le cose meno maneggiabili e più spaventose. «Si sentiva l'unico, in Italia, a poter attaccare certe persone - ha raccontato dopo la sua morte uno dei capi dello spionaggio militare italiano, il generale Maletti - aveva una baldanza che gli piaceva, ai divertiva immensamente in quel suo gioco». Ma troppo presto, dopo l'assassinio, v. :ine liquidato con «ricattatore». Parola massima ente ambigua, nel mondo del potere, che non di rado vive apnu rito di ri¬ catti. Il poliziotto gastronomo Federico Umberto D'Amato, capo degli Affari Riservati del Viminale, ha raccontato che, una volta confezionato l'articolo contro qualcuno, Pecorelli si presentava alla presunta vittima e gli manifestava le proprie difficoltà economiche (che al direttore di Op in realtà non mancavano mai). A un certo punto della conversazione si apriva all'interlocutore e spiegandogli che per far uscire il giornale si era venduto tutto, gli era rimasto solo un quadro. Se questi l'avesse acquistato, beh, per quell'articolo le cose si sarebbero aggiustate. A detta di D'Amato, il quadro era di solito una riproduzione del Poligrafico dello Stato. E tuttavia, dopo la morte, a smentire la leggenda delle estorsioni creative, si scoprì che in realtà non aveva tuia lira da parte. Non solo, ma tutti quelli che poi si sono professionalmente occupati di Pecorelli (a parte i giudici esistono almeno quattro biografie, più un'antologia di oltre mille pagine curata dalla sua compagna) sono rimasti affascinati dal personaggio. Alcuni hanno avuto il sospetto di averlo compreso in una sua dimensione idealistica, forse addirittura letteraria, per quanto donchisciottesca. Altri, in modo più impegnativo, hanno finito per ritenere che quella sua spaventosa morte fosse dipesa in ultima analisi dell'esser venuto Pecorelli a capo dell'inconfessabile mistero del potere in Italia: un anti-Stato criminale trasformatosi nello Stato. E tuttavia, il paradosso della sua vicenda è che per il grande pubblico, lungo l'arco ormai di un ventennio, questo giornalista è stato sostanzialmente dimenticato. O forse ancora meglio: oscurato, nella sua identità e nella sua stessa fine, dalla gigantesca figura dell'imputato, Andreotti, che lui chiamava «il divo Giulio» o «il Biscione». E con cui intrattenne un singolare scambio di lettere sul mal di testa e certe supposte curative. Una vita comunque piena di presagi, di contraddizioni e in fondo addirittura di sottigliezze. Lo stile giornalistico, la prosa di Pecorelli evocavano ad esempio sempre qualcosa di sottinteso, una specie di «chi-deve-capire-capisca», non di rado lasciando immaginare diversi livelli di comprensione. Era un espediente narrativo e insieme un abito mentale. Ma alla lunga la figura del lettore si confondeva con quella del desti - natario delle allusioni e degli ammiccamenti cifrati. Insomma: saltava il codice informativo, Op richiedeva un approccio necessariamente strumentale. Lui se ne rendeva conto. Un giorno gli incendiarono la macchina e pubblicò una nota - proprio così volle intitolarla: «a futura memoria». Diceva: «1 nostri lettori, coloro che ci stimano saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato chi vorrà torcerci anche un solo capello». Ma quando quella mano spinse il grilletto, Pecorelli poteva essere stato ucciso da quattro-cinque distinte entità con altrettante motivazioni e un numero ancora più elevato di moventi. Panorama uscì con una scritta di copertina tanto generica quanto minacciosa: «Questo morto non vi farà dormire». Ma chi? Si disse la P2, i servizi segreti, italiani e non, i contrabbandieri di petrolio, la Guardia di Finanza... Passò un anno e in un processo, a sorpresa e non richiesto, l'ex factotum di Moro Sereno Freato se ne uscì: «Mica l'abbiamo ammazzato noi, Pecorelli». «Noi» erano appunto i morotei, che in quella fase erano ai ferri corti con i dorotei e gli andreottiani. Con gli occhi di oggi Mino Pecorelli faceva parte a pieno titolo della nomenilatura di quella che non si chiamava ancora la Prima Repubblica. Nel Palazzo batteva le zone meno frequentabili: bagni, guardiole, serragli, portinerie, miti-cucine, ripostigli e nascondigli. Era «amico» di generali, carabinieri poliziotti, spioni, massoni, faccendieri, pohtici di serie B. Con quasi tutti, però, capitava spesso che litigasse, anche perché afflitto da Jnconrinenfia puhlicandi. Cioè non sapeva resistere, ogni tanto saliva sul cavallino bianco e, zàcchete, faceva l'articoletto per poi gustarsi le reazioni, secondo logiche che forse gli davano l'illusione di determinare le mosse, in ultima analisi il gioco dei potenti. Oppure impostava - non si capiva mai bene in base a quale mandato - campagne dietro cui si agitavano, perloppiù incompresi, se non derisi, fantasmi moralistici. Elencarle freddamente e alla rinfusa, tutte queste campagne pecorelliane, può sembrare vano, ma serve invece a dare un'idea di quanto Op fosse interna ai meccanismi di un potere che già allora pareva parecchio inquinato. E comunque: traffico d'armi con la Libia; scalata di Rovelli alla Montedison; caso Verzotto ed Ente minerario siciliano; Lockheed e casa Leone; faide Miceli-Maletti nel Sid; vicenda Italcasse-Caltagirone; affaire petroli-Mi.labiali: Gelli doppiogiochista; scandalo danni di guerra; ruberie nelle giunte rosse; import-export della carne nei Paesi dell'Est; separatismo siciliano; falsi De Chirico; crack Fassio e caso Egam; imbrogli farmaceutici; Sip; banda della Magliana e Moro. Questi ultimi due hanno tutta l'aria di essergli stati fatali. Amico e nemico di generali, massoni carabinieri e poliziotti faccendieri, spioni e politici di serie B In alto Giulio Andreotti A sinistra il ritrovamento del cadavere del giornalista ucciso a Roma nell'aprile del '79 e una copertina della sua rivista «Op». A destra Mino Pecorelli

Luoghi citati: Caltagirone, Italia, Libia, Roma