Gilas me lo disse «Saremo come Beirut» di Igor Man
Gilas me lo disse «Saremo come Beirut» TACCUINO DELLA MEMORIA Gilas me lo disse «Saremo come Beirut» Igor Man ABelgrado è cambiata l'aria: dall'euforia del «tutti in piazza», sui ponti, a sfidare a suon di rock, con petti, i missili americani, s'è passati a una dura presa di coscienza. Coi petti non si fermano i missili. Amara, una ragazza ha detto a Massimo Nava: «A Belgrado ogni giorno sparisce un palazzo, per questo è la città più bella del mondo». Bella non lo è mai stata, Beograd (la Città Bianca, in verità piuttosto grigia), epperò ci si andava volentieri. Era una «finestra aperta sull'Est» dove personaggi come Frane Barbieri, e i suoi amici della rivista «Nin»: Niksic, Zecevic, eccetera ti regalavano analisi lucide sulla «non lontana», per loro, implosione dell'Unione Sovietico, sulla crisi «di qui a dieci anni» del loro Paese. La sera andavamo da Ivo, l'ex maggiordomo d'un nunzio apostolico, gestore del ristorante del Circolo dei Giornalisti. Una sorta di zona franca, quel ristorante, dove al tempo di Tito fiorivano barzellette come questa: «Perché gli jugoslavi balcanizzano la Storia e ramanti cizzano il passato? Perché nel 19J$ avranno raggiunto-il livello di vita del secolo scorso». Barzelletta profetica, ora che a Belgrado si fa fa fila per tutto. Già nel 1978 Frane ci diceva come «la lotta degli uomini contro gli uomini» avesse lasciato tracce profonde nel mosaico vivissimo delle nazionalità e delle religioni: «e questo bisogna tenerselo ben fermo in mente, altrimenti non si riuscirà mai a capire quanto sta accadendo e cioè che rischiamo di preparare, oggi, la disfatta di domani». E nel 1989, l'«eretico veggente», il vecchio compagno (dissidente) di Tito, Milovan Gilas, chiuso nel suo salotto gozzaniano, ripeteva: «Il nostro futuro sarà il Libano. La libanizzazione attualmente è politica poiché non esiste un dibattito bensì una rissa; domani invece la Jugoslavia libanizzata gronderà sangue e rimarremo soli con la nostra sciugura». Al Mctropol, albergo cordiale, davano, soltanto pei clienti, uno spogliarello casareccio: una ragazza vestita alla marinara si spogliava così, alla buona, senza gli intellettualismi erotici di Rita Renoir, epperò scuoteva il sangue col suo pube non rasato, esposto al riflettore. Mosca era lontana, allora, ma anche l'Europa lo era. Forse la disgrazia jugoslava ooincidc con la crisi del PCJ. Ricordo quanto una sera, proprio da Ivo, mi disse la mia interprete; tata gentile signora trentenne, libero docente universitario: «A 16 anni mi sono iscritta al partito. Il mio entusiasmo rasentava la fede ed era tessuto di poesia (lo sa che su tre jugoslavi, due scrivono versi?). Oggi, di fronte a quelli che Bettiza efficacemente chiama i nepmen, di fronte al dogmatismo e alla disonestà dei burocrati che adorano il potere come il vitello d'oro, mi chiedo se abbia ancora senso appartenere a un partito che giorno dopo giorno si sta suicidando, così preparando il funerale di quel miracolo laico ch'ò la Jugoslavia fondata e rifondata da Tito».
Persone citate: Amara, Bettiza, Città Bianca, Frane Barbieri, Gilas, Massimo Nava, Milovan Gilas, Rita Renoir, Zecevic
Luoghi citati: Beirut, Belgrado, Europa, Jugoslavia, Libano, Mosca
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