La pratica del domino di Lietta Tornabuoni

La pratica del domino La pratica del domino Lietta Tornabuoni COME per una vendetta storica, si riproduce sotto altra forma quella «teoria del domino» (lo spostamento d'un pezzo del gioco provoca a catena la dislocazione di tutti gli altri pezzi) che per anni ha ossessionato i militari americani impelagati nel conflitto del Vietnam: adesso, uno dopo l'altro, troppi Paesi risultano coinvolti nella guerra. S'è cominciato con la Serbia, con le sanzioni europee: nel 1998 embargo sulle armi, embargo sugli investimenti stranieri, congelamento dei'beni del govèrno di Belgrado depositati in Europa e negli Stati Uniti, blocco dei collegamenti aerei della compagnia di bandiera jugoslava con ì Paesi dell'Unione europea; e nel 1999 azione bellica, bombardamenti, morti, embargo petrolifero. Poi l'Albania è diventata tutta una caserma e un parcheggio per militari e mezzi militari Nato. Poi la Macedonia è devastata dall'esodo dei profughi: 150,000 persone del Kosovo costrette con la violenza a lasciare la propria terra si ammassano in un Paese il cui governo aveva affermato di non poter accogliere più di 20,000 profughi, Poi il Montenegro, Repubblica federata con la Serbia, s'è trasformato in un altro bersaglio dei bombardamenti. Poi anche la Bulgaria è stata raggiunta da quei missili vagabondi che i bombardieri Nato lasciano cadere qua e là a casaccio, «L'alleanza non ha scelta», dicono i portavoce: ma la guerra moltiplicata s'allarga a rovinare sempre nuove popolazioni. Le poche immagini che dalla guerra ci arrivano sono invece mutate, piano piàiib, insensibilmente, in senso meno bellico. I dipipma^icial lavoro per trovare una solu2ÌònèKdfp,ace somigliano sempre più ai soliti politici: sportelli spalancati d'automobili, discussioni intorno a tavole rotonde, guardie del corpo, fiori freschi, occhiali neri, cordiali accoglienze, cappotti sveltamente sfilati, gradini ascesi con energia, sorrisi, strette di mano, all'apparenza l'unica diversità sembrano i bacioni sulle guance (certi diplomatici se li scambiano, i soliti politici no). I profughi impegnati nella sopravvivenza hanno in parte perduto l'aspetto della estrema drammaticità, somigliano sempre più ai perenni terremotati italiani o ai rom accampati ai margini delle nostre città: bambini a giocare, a scuola o dal dottore, panni stesi ad asciugare, cibo messo a cuocere all'aperto su fuochi improvvisati, attese senza tempo, lo sguardo atono e disperato di chi teme che il suo problema non verrà risolto mai. Chissà cosa significa questa mutazione: se vorrà dire che la gente avverte la pace vicina, o se vorrà dire che si è abituata, rassegnata alla guerra inevitabile.