La piccola Italia che parla kosovaro di Vincenzo Tessandori

La piccola Italia che parla kosovaro La piccola Italia che parla kosovaro Nel campo di Kavaja, organizzato ed efficiente Vincenzo Tessandori inviato a KAVAJA Chiedono un posto al coperto, dice l'uomo, capelli grigi e spiccato accento ticinese, «un posto dove poter dormire». Veste in maniera dimessa, ha gli occhi mansueti e quando gli dicono che qui al campo sono in 5200 e non c'è più un angolo libero, lui abbassa lo sguardo. Ma non si arrende. E Piero Moscardini, responsabile della tendopoli per la Protezione civile, confessa. «Mi vergogno anche di notte, quando so che fuori c'è gente che vive all'aperto». E a quell'uomo con i capelli grigi non sa più che cosa rispondere. Hysen Shala ha 37 anni, è originario di Padalista, presso Drenila e da nove anni vive a Lugano dove lavora com'è macchinista del genio civile. E' venuto in Albania dieci giorni fa, a cercare quelli della sua famiglia. Un gruppo lo ha rintracciato a Scutari, giovedì scorso, altri li ha trovati a Durazzo. «Loro hanno perso tutto. Anche io, che mandavo i soldi per fare la casa, ho perso tutto». E ora, a nome di quelli in attesa fuori dal cancello del campo, domanda un buco dove, finalmente, poter dormire, perché sono giorni che quelli camminano. Anche se sono quasi quindici anni che affronta terremoti e alluvioni, e lo sa che delle volte si può anche opporre un rifiuto, Moscardini è uno di quelli che quando lo guardano negli occhi non riesce a dire di no. «Due tende, tiriamole su, e alla svelta». Hysen lo vorrebbe abbracciare. Il campo è vasto, organizzato: 100.800 metri quadri, 630 tenda. L'altra sera è scoppiato un incendio e due si sono trasformate in rogo. Nessuna conseguenza, per fortuna, e ora saranno distribuiti gli estintori che chiunque sa far funzionare. Manca l'acqua corrente, ma ci sono le autobotti e quella da 25 mila litri di acqua potabile è assediata dalle donne con le bottiglie di minerale vuote. «E' un guaio serio questo», osserva Giuseppe Civitate, 44, vigile del fuoco di Asti. E Marian Semec, 43, di Trieste, aggiunge che a volte le donne pretendono di fare il bucato: «Come si fa a dir loro di no?». Il problema è che l'acquedotto a Kavaja, come quello di Durazzo, funziona poco e male, precisa Giuseppe Mazzonello, 43, di Trapani. Insomma, questo dell'acqua è un guaio fra i guai. Kavaja è diviso in sette «isole» ognuna delle quali sembra la circoscrizione di una città. con il sindaco eletto fra gli esuli stessi al quale far capo per le necessità ordinarie. Melihate Vehapi ha 42 anni, di Gjacova, cinque figli, maestra d'asilo. E' l'unica donna «sindaco» e da ieri è anche una donna felice: non vede il marito Muzmi, 51, da cinque anni. Era emigrato in Germania, ma lei pensava che fosse rientrato in Kosovo, con quelli dell'Uck, ha temuto che fosse morto. Ma l'altra sera «la notizia più bella, è vivo, potrà riabbracciarlo». Il tempo viene scandito dalla voce dell'altoparlante che diffonde i nomi di coloro che cercano parenti e amici. E' già stato fatto un censimento, dice Moscardini, e tre giorni fa, alle 21,10, è nata Chiara Miftar, con l'aiuto dei medici dell'ospedale militare di Durazzo, che sono corsi qui a rotta di collo. I ragazzi fino a 14 anni sono 1600, alcuni arrivati da soli, spinti fin qui dalla grande ondata. Ma i giovani, quelli fra i venti e i trenta, sono pochi. «I bambini si sentono finalmente protetti e hanno ripreso a sorridere», dice Rita Guardia, di Cervignano del Friuli, dei giovani scout. Ha già affrontato il terremoto del Friuli e quello dell'Umbria, ma qui è diverso. «La prima emergenza è stata vestire tutta questa gente, soprattutto i più piccoli e ora l'atmosfera è cambiata». Per questo, forse, la voce dei due scriccioli che mi passano accanto è allegra anche se la loro è una canzone triste: «Oj Kosov djep lirie...», «Oh Kosovo, culla di libertà / un esercito, un focolare / l'Uck rende più bello / che per la patria versa sangue». Sami Ad le ma j ha tredici anni, e Batim Nimonaj ne ha dodici e cantano così. La mimetica dei soldati dell'ospedale militare spaventava Elision, che ha 11 anni e ha perduto la mano destra per lo scoppio di una bomba. Ma poi si è rinfrancato e Fabio Guizzardi, 20, di Ferrara, caporale del Terzo reggimento alpini di Pinerolo, ora dice di esser felice perché ha visto quel ragazzo sorridere. «Eravamo partiti con l'idea di montar l'ospedale per accogliere il più alto numero possibile di gente e ci siamo trovati in mezzo a un mondo che non avremmo mai immaginato», confessa Stefano Lomonaco, 20, di Lecce, lui pure del Terzo. «Tutti i bimbi, qui, avevano paura a vederci vestiti così, da soldati», ricorda Antonio Quarta, 21, di Castri di Lecce. «Diffidavano, ma poi è cambiata: ci siamo avvicinati piano piano, abbiamo portato da mangiare e giocato con loro, li trattiamo come nostri fratelli minori. E qualcuno ci ha detto che per loro siamo diventati una specie di famiglia». Ora ognuno di quei bimbi ha anche un giocattolo, «regalato dai nostri ragazzi, che si sono trovati ad affrontare una situazione nuova», dice il colonnello medico Roberto Bramati, direttore sanitario dell'ospedale e chirurgo. Flaminia, sua figlia, ha scritto ad Elision: «Sono contenta che il mio papà ti cura». E lui sorride e tiene la lettera colorata a capo della branda. E ora dice: «Ho trovato tanti amici». E Defina Bufaj, cinque mesi e mezzo, un soldo di cacio con il pigiama rosso e la cuffia nera con gli orecchioni di topolino, tien stretto nella branda un carillon fatto ad orsetto. Gliel'ha regalato uno dei ragazzi in tuta mimetica. L'hanno raccolta una settimana fa nel campo di Kavaja òhe era uno straccio per la broncopolmonite e un inizio di salmonellosi. Ma ora, Diana, sua madre, può finalmente dormire tranquilla «dopo un'eternità». Gli esuli hanno eletto «il sindaco» una donna, maestra d'asilo E' nata la prima bambina di nome Chiara aiutata dai medici militari