Prove tecniche d'invasione di Gabriele Romagnoli

Prove tecniche d'invasione Prove tecniche d'invasione Nascoste tra le Rocky Mountains, le truppe Usa studiano il nemico in vista di Bosnia e (forse) Kosovo Nelforte che clona un villaggio slavo Gabriele Romagnoli invialo a FORT CARSON Giochi di guerra a Fort Carson. Se un giorno l'offensiva di terra in Kosovo scatterà davvero, sentirete riparlare di questa base milita.- nascosta tra le Rocky Mountains del Colorado e di (inolio che, visto oggi, sembra un curioso e costoso gioco teatrale, allestito all'ombra di un sospetto. I media di tutto il mondo •hanno diffuso la notizia: a Fort Carson stanno costruendo la replica di un villaggio slavo, dicono sia bosniaco, per preparare le forze di pace, ma potrebbe anche essere kosovaro, per allenare il contingente d'invasione. Dalla base sono giunte smentite, più di circostanza che di sdegno. E il portavoce Ron Joy, al telefono, ha detto: «Venga a vedere con i suoi occhi». Ci si lascia alle spalle Denver, dove le truppe di terra della gioventù americana hanno fatto il primo massacro dell'anno e si scende verso Sud, sulla Interstate 25. Non ci sono più città: praterie di ghiaccio e fango, montagne innevate sullo sfondo. Ron Joy attende al cancello 20 e, per prima cosa, consegna un opuscolo sulla storia del forte. Dalla lettura si apprende che anche questo lembo di terra è stato sottratto agli indiani (Cheyenne e Arapaho) che ci vivevano. Comprato, dicono loro: 450 mila dollari del 1861 in comode rate di quindici anni per un territorio grande come la Basilicata (più l'onore di dare il nome agli elicotteri). Il forte ci è stato costruito sopra nel 1942, battezzato alla memoria di Kit Carson, meglio conosciuto come compagno d'avventure di Tex Willer. Preparò al conflitto, all'epoca, 104.165 soldati e qualche centinaio di muli arrivati dal Nebraska, tra cui il mitico Hamilton T. Bone (per gli amici Hambone) orgoglio del Quarto Artiglieria, ritratto su «Life» e sepolto con onori militari davanti al quartier generale. Nel '43 fu creato un campo per prigionieri di guerra tedeschi, giapponesi e, almeno un migliaio, italiani. Ultimo ono- re: nel 1951 ci fu girato un film sulla guerra in Corea con Robert Mitchum. E si arriva al nostro tempo. La jeep si ferma in uno spiazzo polveroso. Muratori sono al lavoro nella prateria. Costruiscono un villaggio. Bosniaco, dicono. Replica di uno reale chiamato Brcko. Altri quattro sorgeranno a Nord, sulle montagne: Byeia, Lopare, Krstac, più il gemello di Camp McGovern. Ci saranno le case, che già s'intuiscono, i ne¬ gozi, gli uffici, il municipio, con il sindaco attore che parla solo la lingua locale, la chiesa (ha già il campanile), l'armeria e, alle spalle di tutto, non si capisce con quale funzione, il cimitero. Tunnel sotterranei, come nella realtà, collegheranno gli edifici. L'idea, quella ufficiale, è allenare le truppe di pace che andranno a controllare la situazione in Bosnia nel febbraio 2000. Per questo scopo sarebbero stati investiti 500 mila dollari. Ver¬ ranno slavi veri e finti. Parleranno solo la loro lingua, perchè i militari si abituino al suono e usufruiscano dell'interprete. Ci saranno gruppi etnici diversi, perchè imparino a rispettarli e a conoscere le tradizioni dei musulmani. La replica sarà puntuale e quasi maniacale: sui muri ci saranno fori di pallottole, letame verrà trasportato da vicine fattorie, perchè l'aria abbia quella che viene definita «atmosfera agricola». Si simuleranno rivolte e agguati. Tutto questo per andare a Tuzla, dicono. Il luogotenente Campbell, dal Pentagono, si è lasciato sfuggire questa frase: «Questo è per ora un villaggio bosniaco, ma in futuro potrebbe essere qualsiasi altra cosa». Ora si lamentano che i media abbiano sottolineato «per ora» e «ma». Aggiungono: «Potrebbe essere Ruanda, o Texas», ma le truppe dal Colorado non andranno mai a occuparsi di hutu e tutsi, men che meno di separatisti texani. L'alternativa è una sola: Kosovo. Il sospetto cresce parlando con i due addetti alla preparazione delle truppe: i capitani Brian O'Meara e Rebecca Peters. Dedicheranno due settimane a ogni squadrone. Per prepararli alla Bosnia, dicono. Gli ufficiali O'Meara e Peters non ci sono mai stati. Lui è rientrato da tre anni di Corea, lei era di stanza a Fort Carson. Non hanno mai visto un profugo, mai avuto a che fare con un musulmano. Studiano, divorano libri, navigano su Internet, imparano usi e costumi, sono macchine da riproduzione: data una situazione, la replicano; dato un mutamento, la aggiustano. Con tutti i militari che sono stati in Bosnia, avessero voluto addestratori specifici, avrebbero avuto solo l'imbarazzo della scelta. Hanno preso due Zelig, stanno costruendo qualcosa che, per come te lo fanno vedere, potrebbe essere qualunque cosa. Come siano gli altri villaggi, quelli tra le montagne, non è dato sapere. Se il capitano Peters azzarda una risposta fuori programma, Ron Joy l'ammonisce abbaiando: «Back outl», dietrofront, soldatessa: «Per questo è competente il Pentagono, bisogna rivolgersi a Washington». Il capitano abbassa gli occhi e li fissa su questo fango del Colorado, che tra qualche mese s'impasterà al letame e, chissà, al finto sangue, bosniaco, serbo o kosovaro, dipende. L'allestimento è grande quanto un quarto del Kosovo; sopra diretti alla presunta Krstac bis, volano elicotteri neri. Quali giochi di guerra si stiano preparando oltre la cortina delle montagne, non è dato vedere. Lo scopriremo tra pochi masi, quando i nipotini di Kit Carson partiranno, per Tuzla o per Pristina, a respirare concime e polvere da sparo, infine autentici. w Bijela COLORADO Camp McGovern Lopare Kistac NUOVO MESSICO Sui muri ci sono fori di pallottole, a terra letame per ricreare l'«atmosfera agricola» Qui si simulano rivolte e agguati Un soldato americano di guardia su una camionetta