A Belgrado la voce dell'oppressione di Giuseppe Zaccaria

A Belgrado la voce dell'oppressione A Belgrado la voce dell'oppressione Ma la nazione resta unita intorno al regime, unica alternativa a Milosevic è il delfino Milutinovic Appello di intellettuali: no ai raid, no alla pulizia etnica Giuseppe Zaccaria inviato a BELGRADO «La Jugoslavia comincia a cedere», aveva dichiarato pochi giorni fa il comandante delle forze Nato, generale Wesley Clark. Sarà stato un caso, ina immediatamente dopo, man mano che le voci più o meno propagandistiche del regime di Belgrado venivano oscurate, si è iniziata la rincorsa delle «notizie» riguardanti dissensi, arretramenti, critiche o fratture nel sistema politico di Mobilitali Milosevic. Le ultime 48 ore hanno segnato un singolare infittirsi di queste voci. Prima la strana ipotesi (lanciata da «El Mundo», quotidiano spagnolo) di una successione già ipotizzata fra il grande nemico dell'Occidente ed uno dei suoi vicepresidenti, quel Draskovic già nazionalista, poi interventista, quindi protestatario ed oggi inserito nel gran teatro del governo, sia pure in un piccolo posto di loggione. Oggi, ricompare in versione più ampia un documento di intellettuali già reso noto ima decina di giorni fa: docenti universitari, dissidenti, proprietari di emittenti radiofoniche fatte chiudere dal regime chiedono «l'immediata cessazione dei bombardamenti Nato» ma si oppongono anche alla «pulizia etnica compiuta nel Kosovo da qualsiasi forza jugoslava». Il medesimo testo era stato diffuso il 14 aprile scorso dall'agenzia indipendente «Beta» che però, prudentemente, aveva espunto dalla dichiarazione il riferimento al Kosovo. Da qui all'idea che i bombardamenti stiano aprendo le prime crepe nel regime, il passo è stato breve. Ma quel poco che si riesce a decifrare dietro le cortine di un sistema bizantino ulteriormente velato dal nuovo nazionalismo, non sembra autorizzare grandi speranze. Nonostante dichiarazioni dall'estero e documenti riciclati, il monolitismo serbo non sembra essere stato scalfito da un mese di bombardamenti. E non nel senso degli umori popolari, che adesso più di prima appaiono irridenti verso il potere, ma di ciò che mantiene unito il sentimento nazionale. L'impressione è che le incursioni, anziché produrre fratture, con- tinuino a cementare l'antica idea di resistenza, il riflesso condizionato che da sempre spinge i serbi a chinare la testa ed a resistere assieme. Nella loro storia, qualsiasi «leadership» che riuscisse a farsi identificare con l'idea non di Stato ma di serbitudine, ha riscosso appoggio incondizionato. Ieri l'«Ansa» ha intervistato il figlio di Milovan Gilas, Aleksa, docente all'università americana di Berkeley, uno dei più noti analisti di orientamento democratico delle cose di Serbia: «Prima pensavo che solo Dio potesse unire i serbi - dice Gilas ma mi sbagliavo: sempre dal cielo, ci sono riusciti anohe i missili della Nato». Il Paese, continua Gilas, respinge ancora l'«omogeneizzazione totalitaria», mantiene tutte le diversità politiche interne ma è quasi forzato a ritrovare compattezza. «Noi serbi non siamo tutti uniti con Milosevic, ma siamo concordi nel volere la fine dei bombardamenti, una soluzione politica per il Kosovo e nel considerare un'ingiustizia ed una barbarie i raid della Nato». Quei brandelli di opposizione sopravvissuti alle proteste di due anni fa (cooptati dal potere come Vuk Draskovic, accettati e dunque espulsi come Zoran Djindjic, o semplicemente cancellati come Vesna Pesic* oggi esercitano dunque un'influenza pari a zero. Lo stato di guerra sembra aver annullato perfino il loro movimento di resistenza civile che era nato nelle università ed in quest'ultimo mese è stato azzittito dal sentimento patriottico e dalla comune emergen¬ za civile. E se i pochi segnali che si possono cogliere nelle stanze del potere consentono qualche previsione, il solo cambiamento ipotizzabile (peraltro, in prospettiva davvero lontana) prevede una successione intema, una sorta di clonazione. I pochi esponenti politici di Belgrado che oggi accettino di discutere la sola, remotissima ipotesi di una succesione, indicano un solo candidato possibile, Milan Milutinovic, 57.9jini, presidente di Serbia, una lunga esperienza diplomatica alle spalle, L'uomo ha'dato buona prova di sé nelle trattative di Kambouillet (dal pfcttadivista serbo, almeno), ha una grande esperienza politica ma soprattutto possiede una caratteristica rara. E' intimo amico di Milosevic, cammi¬ na al suo fianco dagli anni degli studi universitari, ne conosce benissimo i familiari, ne riscuote la piena fiducia. Pochi giorni fa, il partito guidato dalla moglie del presidente, Mirjana Markovic, ha diffuso un comunicato che i belgradologi hanno trovato di grande interesse. La «Jul», il più comunista dei gruppi jugoslavi, il più autorevole ed influente, ha riunito il comitato centrale e alla presenza della signora Milosevic ha fatto sapere che cessati i bombardamenti «si potranno creare le condizioni per ridurre le forze nel Kosovo e concordare una presenza internazionale». Stì mai la firma di uh simile accordo dovesse toccare a qualcun altro, l'avvocato Milutinovic oggi sembra l'unico che, forse, potrà essere abilitato a farlo. La guerra sembra aver annullato anche il movimento di resistenza civile che era nato nelle università Il documento dei dissidenti era già uscito una decina di giorni fa ma fu censurato della parte sul Kosovo Soldati jugoslavi sparano in aria alle esequie di un loro ufficiale (foto keuter] Il presidente della Federazione Iugoslava (Serbia più Montenegro) Milutinovic