SE GLI USA FANNO LE NOSTRE GUERRE di Barbara Spinelli

SE GLI USA FANNO LE NOSTRE GUERRE DALLA PRIMA PAGINA SE GLI USA FANNO LE NOSTRE GUERRE Barbara Spinelli Maastricht avvenne mentre su Dubrovnik cadevano le bombe della pulizia etnica, e un regime di apartheid veniva instaurato in Kosovo. Da allora sono passati dieci anni - dieci anni di immane ritardo, di indifferenza delle élite intellettuali, giornalistiche, politiche - e infine l'Europa è costretta a occuparsi responsabilmente di se stessa. Di tutta se stessa, e dunque anche del persistente disordine nei Balcani, dei deportati del Kosovo, dei crimini contro l'umanità perpetrati anno dopo anno impunemente, sotto lo sguardo apatico dell'Occidente - dal piccolo Stalin che si chiama Milosevic. Il muro di Berlino è scomparso nell'89 ma di fatto cade solo adesso, nelle menti di non pochi intellettuali e dei massimi responsabili dell'Occidente europeo. Anche di tale ritardo sono consapevoli i figli europei del Sessantotto. In cuor loro, sanno che il battesimo non avrebbe luogo, se l'America che avevano tanto esecrato in gioventù non avesse tra- scinato il continente per i capelli, obbligandolo ad agire militarmente contro la quarta guerra razziale di Belgrado. Anche per questo sono generalmente assai prudenti, quando parlano di difesa europea e di autonomia strategica dall'alleato d'oltre Atlantico. Infatti una cosa sembra chiara: nelle condizioni attuali - in questa guerra, in questa prova iniziatica cui son sottoposti i Paesi dell'Unione - parlare di difesa europea è nella migliore delle ipotesi una fuga nell'ipocrisia. Nella peggiore, tradisce un sotterraneo desiderio di dimissione militare e morale. Lamberto Dini o Helmut Schmidt che accusano corrucciati l'egemonismo americano o che denunciano gli abusi del gendarme mondiale statunitense fingono di non sapere quel che dicono, con i loro riottosi lamenti che scimmiottano slogan della vecchia sinistra o delie vecchie forze conservatrici. Fingono di non sapere che gli europei non avrebbero le forze materiali, né le capacità belliche, né la costanza mentale e ideologica per affrontare una qualsivoglia guerra: breve, media, o di lunga durata. Gli europei non hanno satelliti d'osservazione come quelli americani, né elicotteri da combattimento come gli Apache, né truppe terrestri da poter dislocare con efficacia, rapidità. Fonti mili¬ tari francesi fanno sapere che Parigi sarebbe capace di schierare diecimila soldati professionisti, «al massimo». Poco più potrebbero gli inglesi, e altrove le cifre sono irrisorie. Non è solo questione di tecniche e di numeri. E' questione di pensiero debilitato, di ambizioni strategiche pavide, viziate da decenni di profittevole sonno sotto l'ombrello nucleare statunitense. Le stesse fonti parigine fanno sapere che non esiste alcun serio piano bel lieo nello stato maggiore francese, concernente il futuro della guerra nei Balcani. E se non esiste in Francia - nazione tradizionalmente bellicosa, gelosa della propria autonomia - è difficile che concreti piani siano reperibili in Germania, Spagna, Italia. La verità è che gli europei si sono illusi dopo la caduta del Muro, e non meno degli americani hanno creduto che la Storia fosse finita, che l'era dei nazionalismi fosse tramontata, che i mostri totalitari avessero ormai durevolmente disertato il continente, che i soldi si potessero infine spendere per se stessi soltanto. Con una grande differenza tuttavia, rispetto a Washington: che molto presto Clinton dovette ricredersi, di fronte alle nuove minacce mondiali, mentre gli europei hanno continuato a sognare un mondo ormai unicamente proteso al benessere del mercato, della mondializzazione post-nazionale. Questa è la cruda realtà, con cui si trovano a fare i conti i Figli del Sessantotto: il XX secolo sta per concludersi, e ancora una volta sono gli americani a fare lo sporco lavoro di riportare ordine e civiltà in Europa. Sono ancora loro a combattere le nostre battaglie, e a dover terminare - nel 1999 - il lavoro antitotalitario mtrapreso con l'Inghilterra nel '45. I primi a intuire queste realtà sono gli europei dell'Est, ammessi da poco nell'Alleanza atlantica e unici convinti entusiasti della Nato. Proprio da loro - e da nazioni limitrofe della Jugoslavia che aspirano a entrare nella Nato viene oggi la più grande diffidenza verso un'Europa della difesa. Tutti i sondaggi lo confermano, spettacolarmente: in Repubblica Ceca, in Polonia, in Ungheria, è infima la percentuale che invoca la spada europea. Sanno che la spada è del tutto virtuale, astratta, e che di fronte alle presenti minacce non può minimamente sostituire la spada Usa, o la spada Nato. A questo pensano, quando osservano i timidi tentativi franco-britannici di cooperazione militare. Questo disse Vaclav Havel a Mitterrand, con massima irritazione, quando Parigi gli propose un sistema di sicurezza europeo sganciato dall'America. Ma quel che i democratici temono di più - nell'universo turbolento del postcomunismo - è la fragilità governativa dei Figli occidentali del Sessantotto. Se si esclude la Gran Bretagna, quasi tutti i capi europei sono assediati da forze delle vecchia sinistra pacifista, o da conservatori che sognano il perduto condominio mondiale russo-americano. 1 riflessi neutralisti della vecchia Europa tornano in superficie non solo nei partiti ma nelle intelligenze, nei giornali. Lo si è visto nei giorni scorsi, quando la Nato ha bombardato la sede della Tv serba. Tutte le corporazioni giornalistiche in Europa si sono indignate, quasi avessero completamente dimenticato il mestiere bellicoso di propaganda nei regimi totalitari, e l'uso militare che i despoti ne fanno. Eppure basta vedere lo straordinario potere che hanno televisioni e radio, nei crimini contro l'umanità. Un bombardamento di Radio Mille Colline, durante il genocidio dei tutsi in Ruanda, avrebbe evitato decine di migliaia di morti provocati da grida che aizzavano giorno e notte agli eccidi razziali. Una sinistra così assediata potrà difficilmente imporre un aumento delle spese militari in Europa, necessario per qualsiasi progetto di autonomia difensiva. Potrà difficilmente convincere gli alleati di governo a spendere solili ulteriori per i Piani Marshall che dovranno ricostruire Kosovo e Serbia, Albania e Macedonia. E che dovranno inoltre aiutare la Russia, in un futuro non lontano. Potrà difficilmente fare quel che invoca la dissidente serba Sonja Biserko, in un lucido e coraggioso articolo: non solo la ricostruzione del suo Paese, ma la sua «denazificazione, e la creazione di un protettorato democratico occidentale non esclusivamente in Kosovo ma sull'intera Serbia». Perché la Serbia, come la Germania del '45, «è incapace di liberarsi dei propri despoti» («La mia Serbia», Frankfurter Allgemeiue Zeitung, 24-4-99). Pacifisti di timistra e neutralisti conservatori accusano la Nato e l'America di condurre una guerra solamente etica, dettata da convinzioni astratte, idealistica. Ma il vero idealismo sconnesso dalla realtà e dalla responsabilità non è in chi ha deciso finalmente di arrestare le guerre razziali di Milosevic e Seselj. E' annidato nelle uscite di Dini contro l'America gendarme del mondo: quest'America che continuiamo a invocare perché ci dia una mano, e che poi critichiamo per come si impegna. L'idealismo senza responsabilità è annidato in una sinistra che continua a esser patologicamente attratta da Serbia e Kussia, e corre a Belgrado o a Mosca per corteggiare comunisti riconvertiti al nazismo. I veri idealisti non sono ciucili che accettano questo battesimo dell'Europa, ben sapendo che da solo il continente non fa ancora paura a nessuno. Sono quelli che non coniugano le parole con gli atti, e non vedono contraddizione fra le malmostose insoddisfazioni e l'assunzione di responsabilità di governo. Naturalmente verrà il giorno in cui occorrerà pensare davvero, una difesa dell'Europa. Ma anche in quel caso occorrerà combinare fedi e fatti, litica delle convinzioni e delle responsabihtà. Manès Sperber, grande esponente dell'antifascismo, diceva che l'Europa doveva «apprendere a divenire una superpotenza, capace di incutere paura e di resistere alle tentazioni del suicidio politico». Era nell'83, l'anno in cui mori, e oggetto della sua polemica era il pacifismo filosovietico nel vecchio continente. Ma per divenire superpotenza temibile, l'Europa doveva smettere il suo vizio più grave: «L'ingratitudine aggressiva verso l'America: questa forma più che mai vile, dell'autoaffermazione individuale o nazionale».