I «paisà» di piazza Scandenberg di Filippo Ceccarelli

I «paisà» di piazza Scandenberg VIAGGIO IN ALBANIA MISERIE E TRAFFICI AL CONFINE CON LA GUERRA I «paisà» di piazza Scandenberg A Tirana oggi, come a Napoli nel dopoguerra reportage Filippo Ceccarelli inviato a TIRANA GUAI ai vinti, si sa. Vinti dai serbi, i kosovari; vinti da cinquant'anni di follia nazional-comunista questi altri che osservano lo straniero con un sorriso troppo umile o un lampo insolente negli occhi. E però: come non sentire pietà, e tenerezza, e anche un po' di speranza, in fondo - ma molto in fondo - per questi albanesi così simili a noi? Come non capire che le loro disgrazie sono quelle stesse patite dagli italiani cinquant'anni fa? La miseria, la fame, la sconfitta. Sul travertino sporco di piazza Scandenberg un soldato protende il piede per farsi lucidare gli anfibi. Cortocircuito della memoria in agguato: «Bande di ragazzini cenciosi inginocchiati davanti alle loro cassette di legno, battevano la costola della loro spazzola sul coperchio della cassetta gridando: 'Sciuscià! Sciuscià!' e intanto con la scarna, avida mano ghermivano a volo per un lembo dei calzoni i soldati...». Alt, un momento: questa non è Tirana, questa è la Napoli del 1944, è La pelle di Curzio Malaparte, è Sciuscià di De Sica (1946). Come eravamo? A pezzi, eravamo. Basti ripensare a un'intera filmografia che oggi rivive a Tirana. Lo sfruttamento intensivo dei soldati americani di Paisà, la borsa nera che s'intravede in Roma città aperta. Al Mercato Nuovo, dietro rua Pisha, tra le povere bancarelle di ricambi, chiedi se esiste un'espressione che qualifichi quel certo tipo di lestofanti e ti senti rispondere, con l'aria di chi è costretto ad usarla piuttosto spesso: diajdut i bicicletaven. E già: ladri di biciclette... I giornalisti, dice giustamente 10 storico Piero Melograni, amano pensare che la storia si ripeta. Il che, aggiunge, non avviene mai. Però, accidenti, anche nell'Italia del 1944 c'era un generale americano che si chiamava, come questo di adesso, Clark. E c'erano banditi pseudo-indipendentisti come Salvatore Giuliano, o ras della mala tipo «il re di Poggioreale» Navarra che si atteggiavano a protettori del popolo proprio come quel Zani che dà alloggio a 40 rifugiati e intende asfaltare per conto suo le strade di Valona. L'altro giorno un giornale di qui se n'è uscito: «Albania 51" stella della bandiera americana». Con mezzo secolo di ritardo rispetto alla Sicilia. Davvero fuor di luogo quell'aria tra il pietistico e lo schizzinoso che è parsa affiorare in Italia. A Napoli, nel dopoguerra e forse anche oltre, si vendevano le bambine e i bambini; in Albania la Ga zeta Shqiptare del 7 aprile recava la notizia di una profuga kosovara costretta a battere. A ciascuno i suoi «sfollati», come si diceva un tempo, e le sue tende, il pane fatto con le foghe, i vestiti con la tela dei paracadute, le mense all'aperto, i bambini rachitici e a piedi nudi che si appendono al borsone del fotografo olandese con la coda di cavallo: fanno il gesto del boccone. «Panel» chiedono. «Grave è 11 problema del pane» scrive Nenni nei suoi diari, mese di maggio, anno 1946. Forse è anche per questo passato - incognito o cancellato - che gli italiani provano un orrore così prossimo, uno sgomento così ancestrale, familiare, autobiografico. A Tirana, come allora in Sicilia o in Basilicata, la guerra è lontana. Ma anche questo attizza ricordi lontani, spenti. Parecchi albanesi sputano - pericolosamente - per terra; diversi hanno le scarpe sfondate; si lavano poco, l'acqua è razionata, il sapone ha prezzi proibitivi. Ma anche in Italia, c'è da giurarci, l'odore delle camionette affollate o dei treni pieni zeppi non doveva essere così piacevole. Con l'avvertenza che non si tratta di una provocazione, ma di brano del diario di Leo Longanesi ambientato a Napoli nel 1944, quel che segue si attaglia perfettamente a quanto un giornalista contemporaneo ha notato passeggiando dallo storico hotel Daiti, nei cui bagni ogni tanto sgorgano polle d'acqua come sorgenti termali, all'Intemet Center di Tirana. Ecco: «Ne: vicoli bambini seminudi giocano sui mucchi d'immondizia, vecchie coi piedi scalzi nel fango, ragazze gravide, spettinate, sudice, ragazzi che spaccano pezzi di trave sottratti alle macerie, e zoppi, giovani zoppi con le stampelle che saltano come gamberi. Nulla ha qui una forma o un colore preciso; seggiole con tre gambe, cappotti senza maniche, carretti senza ruote, orinali sfondati». Si può aggiungere che lo Straccio e la Ruggine, entità scomparse nell'Italia di oggi, esercitano qui una autentica egemonia estetica. A Tirana, quando piove, piove veramente sul bagnato. Ci sono qui pozzanghere inaudite, con le più varie tipologie di acque e liquami, e tombini rubati (per fare armi, sembra), lavandini intasati... Le condizioni igieniche sono più o meno quelle che si ricavano dalla lettura di un saggio di Marco Innocenti su "L'Italia del 1945. Come eravamo nell'anno in cui scoppiò la pace" (Mursia). Sullo zoo urbano vale la pena di rinverdire vecchi racconti famibari. In città ci sono sorci scattanti e temerari, pidocchi da record, scarafaggi intraprendenti che si alzano sulle zampe; davanti al ministero della Difesa cani randagi che si grattano furiosamente. Lungo la strada che porta al- l'aeroporto militarizzato di Rinas vendono misera frutta, pneumatici consumati e improbabile nafta; lungo il boulevard dedicato agli eroi della nazione, centro del centro d'Albania, una mercanzia che stringe il cuore: supplementi di quotidiani italiani, bibite, cinturini d'orologio, smalto, cartoccetti e semi di girasole. La vendita delle sigarette è affidata a bambini astuti e insistenti come adulti. Al porto di Durazzo, tra le gru sporche di farina, il prezzo dei container è schizzato alle stelle e l'arrivo delle navi umanitarie è in genere salutato con piccole cerimonie, come a Taranto o a Genova ai tempi degli aiuti Erp. Come allora c'è molta voglia di vivere e si imparano le lingue. Si sarà capito: gli albanesi sono quelli che siamo stati e che ci siamo - felicemente - dimenticati di essere stati. Tutto questo, con l'incendio dei Balcani, c'entra e non c'entra. Rispetto al conflitto Tirana è al tempo stesso retrovia e avamposto. Inizia il reclutamento, ma i figli dei ministri s'imboscano. Al di là del cordoglio e della generosità per i «fratelli» del Kosovo, la guerra è vista come un'occasione, una specie di inconfessabile spallata proto-keynesiana che dovrebbe, o potrebbe portare alla ricostruzione. Converrà senz'altro smetterla con le analogie e l'autobiografismo, ma anche stavolta si reclama un piano Marshall e intanto s'incassa il congelamento del debito albanese. Sul tutto, le banche statali di secondo livello hanno bloccato le operazioni in valuta straniera e cosi si va affermando una finanza di strada, un aggressivo mercato nero, un popolo frettoloso che di giorno e di notte, sotto il sole o sotto gli ombrelli, maneggia calcolatorini ed esibisce pacchi di banconote maleodoranti tenute con l'elastico sussurrando: «Marca! lirette! dollari*. Vendono e comprano, incessantemente. I più furbi si dice che eseguano il trucco del «rotolino», lasciandosi attorcigliare le banconote pesanti al mignolo con l'abi¬ lità di prestigiatori. In vista della guerra, l'arte di arrangiarsi si affina comunque a tutti i livelli. Con qualche inevitabile precauzione - e il timore di scivolare nella cattiva letteratura - si può dire che Tirana sta per diventare la mecca degli avventurieri. Quei pochi alberghi sono già strapieni di figure da film di Alberto Sordi, personaggi baffuti da intrigo balcanico tipo 007 e incarnazioni di canzoni di Battiato: truci lesbiche croate, mercanti di petrolio del Montenegro, furbi contrabbandieri macedoni. Sotto le improbabili spoglie di «interpreti», «assistenti» e ormai - allibro - perfino di «giornaliste» s'indovinano, generalmente bionde e burrose, le «segnorine» di questa primavera albanese di fine secolo. Nel frattempo funzionari internazionali poliglotti e fichissimi, con sciarpe e sahariane, si muovono per Tirana su automobili scalcagnatissime scansando le buche come fossero a casa loro. Manca purtroppo una colonna sonora: Tirana è suggestiva, ma per ora drammaticamente avara di musica. Giusto qualche triste violino, lievemente jettatorio. Non si balla, non si esce dopo li? dieci di sera, per ragioni di sicurezza; al massimo gli stranieri si concedono un pranzetto dall'«agnellaro», un rumoroso ristorante di spiedini con le melanzane più unte del mondo. Il più delle volte si va a mangiare dal «Passatore» di Antonella, ardimentosa ristoratrice romagnola che dal Kenia si è trasferita a Tirana. Rispetto ai cliché, mancano pure i bari, gli esuli polacchi e i camerieri di Transatlantico. Le spie no, che anche qui hanno una specie di display sulla fronte. Aspettando l'armata, il vero controllo sul teatro delle operazioni lo esercita in realtà il sistema dei media, che funge da formidabile motore economico. Le tv americane si muovono su specie di carrarmati con cannocchialoni e radar giganteschi; requisiscono edifici strategici, affittano appartamenti, trasformano interi piani di hotel. Ammiratissima fa il suo ingresso nella ludi del 'Tirana' Christine Amanpour. Sempre più ghiotti di tv italiana. gli albanesi reclamano Gerry Scotti. 1 giornali, le radio e i network di tutto il monito arruolano politici locali, consiglieri di politici, stringer, autisti di taxi, interpreti, domestici, servi, guardie del corpo fi, se necessario, anche banditi. Sulle schede dei telefonini albanesi, per lo più appartenenti alla Juenesse dorè di Tirana, e partito un fiorente mercato. Sugli agognatissimi telefoni satellitari si va spargendo una nutrita aneddotica: ai confini una banda di feroci montanari ne ha rubato uno, per poi rivenderlo a 100 dollari. La macchina dei media è parsa concentrarsi soprattutto sui profughi, anche a costo di alimentare una specie di mercato degli orrori con immagini e servizi che dovevano commuovere, raramente spiegare. Ma alla lunga, la trasmissione del dolore e della sciagura ne ha cancellato la profondità storica. Così, fuori dal campo delle telecamere, o forse tagliata fuori in fase di montaggio, rimane la vita albanese di tutti i giorni. Per esempio l'ordinaria crisi alimentare: negozi pieni e nessuno che compra. I prezzi sono troppo alti rispetto agli stipendi. Un /Vivale circa 80 lire, la pensione minima è di 4mila lek; uno stipendio «decente» va da tì ai 10 mila lek; uno considerato alto raggiunge i 15 mila. Un uovo si compra a 15 lek', un filone di pane a 30; un chilo di riso a 75; uno di zucchero a 60; le mele stanno a 100; i pomodori a 150. Viene tutto da fuori. La guerra, per ora, non ha fatto rialzare i prezzi dei generi alimentari. Poi ci sarebbero gli aiuti, parola - ndihmat - che al momento risuona di suggestioni a dir poco magiche. Ma anche qui, tra le dolenti note, è davvero impossibile non richiamare alla memoria l'uso e l'abuso che se ne fece nell'Italia all'amatissima del dopoguerra. Ebbene, anche in Albania si segnalano saccheggi, imboscamenti, sparizioni di camion e traffici di ogni genere in quei luoghi cruciali della cultura balcanica che sono le prefetture e le dogane. Alcuni prodotti della solidarietà internazionale sono ricomparsi, ovviamente in vendita, sul mercato. Altri sarebbero stati ammassati, dando il cambio sulle bancarelle agli aiuti già ammassati clandestinamente nel 1997. Poetava d'altra parte Trilussa nell'immediato dopoguerra: «Tanto in mare quanto in terra c'è la pace e c'è la guerra/ che produce in quantità,' pescecani e baccalà». Bene, i «pescecani» o profittatori di guerra, in Albania li chiamano «piratet». Il governo socialista e l'opposizione di Berisha si rinfacciano l'un l'altro di essere «pirairf». Litigano anche sul numero dei kosovari ospitati nei campi (che il governo ha interesse di gonfiare) e nelle case (ma c'è già chi li rispedisce nelle tende perche non ce la fa a nutrirli). Molti comunisti - paro quelli un tempo più pedanti - sono diventati affaristi. Sul mausoleo piramidale fatto costruire in onore di Enver Hoxha i bambini di Tirana fanno lo scivolo con i cartoni. Osservati da lontano sembrano piccoli folletti; da vicino hanno «uno sguardo pieno di una speranza famelica, bestiale scriveva Malaparte - una speranza meravigliosa». Oltre al cordoglio e alla generosità per i «fratelli» del Kosovo, il conflitto è visto come una specie di inconfessabile scorciatoia che potrebbe portare alla tanto sognata ricostruzione Con mezzo secolo di ritardo rispetto alla Sicilia il Paese chiede di essere U 51° Stato Usa Napoli '44 gli «sciuscià» ragazzini napoletani che lustrano le scarpe ai soldati americani Foto grande a sinistra bambini albanesi vendono sigarette a destra ragazze italiane con i soldati statunitensi li Qui sopra lo scrittore Curzio Malaparte accanto i ragazzini napoletani che descrisse nel romanzo «La pelle» Una scena di «Roma città aperta» quadro neorealista della disperazione della guerra