SUD Biscotti americani e insalata russa di Enzo Bettiza

SUD Biscotti americani e insalata russa Un breve interrogatorio e poi l'uscita dal campo profughi inglese Incominciano esilio e libertà SUD Biscotti americani e insalata russa SUBiscotti Biscotti americani e insalata russaamericani e insalata russa Enzo Bettiza EOPO lo sbarco e la breve sosta nel campo profughi britannico, la città di Bari ci accolse con un'esplosione di luce che ricordo molto intensa. L'ultimo giorno di permanenza nel campo dovemmo dedicarlo aU'mterrogatorio cui ci sottopose un ufficiale del controspionaggio dell'esercito d'occupazione: un maggiore in divisa color cachi, rilassato e freddo, con baffetti e lungo viso equino che vagamente evocava quello di Orwell. Gli inglesi non mancano mai di stupire per l'originale stramberia delle loro usanze, come la guida a sinistra o l'ostracismo al bidet negli alberghi. Altrettanto stravagante appariva la procedura di congedo che, nei campi di transito e di controllo, usavano applicare agii esuli prima di rimetterli in libertà. Sarebbe stato logico interrogare gli mdividui d'ogni razza e provenienza, cui davano alloggio e ristoro temporanei, subito dopo che li avevano accolti. Invece no. Il filtro meticoloso dell'identità e delle intenzioni degli esuli era un'operazione che avveniva, non al principio, ma alla fine del soggiorno vigilato impostogli nei campi d'accoglienza. D maggiore c'interrogò separatamente nino dopo l'altro, a porte chiuse, ad eccezione della mia sorella sordomuta alla quale consenti di entrare nel suo ufficio accompagnata e assistita dalla mamma. Esaminò con attenzione i nostri passaporti italiani, volle sapere se avevamo l'intenzione di restare in Italia, a quale attività ci saremmo eventualmente dedicati, se ci consideravamo fuggiaschi o rimpratriati volontari. Mio padre se la cavò rapidamente col suo discreto inglese. Mio fratello con un po' di francese. La mamma, che si commuoveva ogniqualvolta doveva fare da interprete alla figlia sordomuta, restò semiparalizzata senza proferire parola sotto lo sguardo scrutatore dell'ufficiale, il quale dopo pochi minuti si vide costretto a licenziarle entrambe. Io, volendo darmi un tono, cominciai con un inglese di fantasia, tutto libresco, appreso per conto mio con letture e appunti grammaticali e lessicali. Mi andavo attorcigliando in frasi sempre più complicate, finché il maggiore, spazientito, mi disse di punto in bianco in italiano (lingua che sino allora aveva finto chissà perché d'ignorare): «Insomma, mi dica una buona volta cosa intende fare in Italia». Ribattei veloce: eli pittore». Lui, quasi divertito: «Mi scusi, forse non ho capito bene. L'imbianchino o il pittore di quadri artistici?». «Quadri», precisai lapidario e risentito. Al che l'ufficiale, alzandosi e facendomi capire che la seduta era tolta, commentò con un tocco di cordialità: «Già in tempi normali i pittori d'arte muoiono spesso di fame. Figurarsi in tempi come questi, in un Paese sconfitto e devastato dalla guerra. Le esprimo comunque un augurio solidale: anch'io, una volta, volevo fare il pittore». Bari però, smentendo l'osservazione pessimistica del maggiore britannico, non mi presentò affatto il volto di una città denutrita e devastata dalla guerra. Tùtt'altro. Mi colpì subito il bagliore di luminosità festosa che promanava da ogni angolo, bar affollati, avvolti nelle nubi di vapore e nello scinti 11 io cromato di fischienti macchine espresso, i ristoranti pieni e odorosi di buon cibo meoUterraneo, le vetrine dei negozi alimentari ricolme di vivande non suggerivano proprio il quadro di un Paese sconvolto, impoverito da distruzioni, saccheggi. eserciti famelici. Qui, le tracce e le ferite della tragedia, al contrario che nei Balcani vicini, non si vedevano più. Non fosse stato pei i campi profughi nei dintonu, o le jeep che solcavano a folle velocità i rettilinei perfettamente incrociati della piccola metropoli pugliese, o i soldati inglesi e americani che bighellonavano pigri o ubriachi in cerca di divertimenti e di donne facili, si sarebbe detto che Bari e i baresi non avessero mai conosciuto le paure e le sofferenze di una grande guerra. Certi siti del porto offrivano lo spettacolo di una permanente fiera commerciale e gastronomica. Sommergeva moli e banchine una folla di venditori di pesce gesticolanti, disputanti, urlanti chissà che cosa in un dialetto incomprensibile. Molti sbattevano con forza contro la pietra delle bandirne dei polipetti appena pescati, li tramortivano e spiaccicavano a colpi furiosi, reiterati, ritmandoli con l'accompagnamento di ansimi rodi i, poi se li infilavano nella bocca e ne azzannavano golosamente i tentacoli ancora guizzanti. Uomini e pesci palpitavano di lucori violenti, investiti dall'azzurro e dai refoli del mare, dardeggiati da un sole d'aprile già cocente. Poteva darsi che tutte quelle sensazioni di forte luminosità, di frastornante mobilità, di vita lita onnivora, apparissero quanto mai raddoppiate e straordinarie ai miei occhi che conservavano ancora le visioni più deprimenti e più tetre del mondo balcanico che avevo appena lasciato alle spalle. Poteva darsi che agisse allora per contrasto, in me, la fascinazione cromatica di un'Itala in parvenza opulenta che, mezzo secolo dopo, le televisioni italiane avrebbero proiettato in presa indiretta e ipnotica fino alle miserabili coste e città albanesi. Forse ero simile a un cieco che, uscito per miracolo improvviso dal buio della cecità, prendeva ogni bagliore di lucciola per un fuoco di lanterna. Insomma: dove era andato a finire il Meridione italiano, povero e perdipiù emerso da una guerra perduta, che i racconti di famiglia m'avevano sempre descritto privo di pane e d'alfabeto? Era stato soltanto un parto della nostra immaginazione, viziata da un certo pregiudizio mitteleuropeo nei confronti del Sud italiano? Le scene abbaglianti con cui questo Sud estraneo ora mi fendeva lo sguardo erano il frutto di una mia personale illusione ottica, oppure il prodotto di una corposa realtà oggettiva? Gli italiani in genere, al contrario dei francesi e dei popoli nordici, amano compiangersi e piangersi addosso. A parte ì professionisti del meridionalismo storico dell'eterna «quistione meridionale» per dirla con Gramsci e Giustino Fortunato, già allora, anzi più che mai allora, nei giorni d'uscita dalla guerra, erano tanti gli intellettuali, gli scrittori, i saggisti che versavano lacrime e lamenti sul declino e il destina maledetto del Mezzogiorno. Si andava dai truculenti affreschi napoletani della Pelle di Malaparte alle desolate allucinazioni siciliane di Nino Sa Varese, il quale descriveva così l'entrata degli angloamericani nella sua Enna natale: «Sono arrivati i ricchi nella terra dei poveri; sono arrivati i ben calzati tra gli scalzi, gli spensierati fumatori tra i fumatori astemii, i divoratori di scatole tra quelli che si nutrono di solo pane e di piante legate alle radici. Guardano. Ora tutti possono vedere da vicino il volto della nostra sventura». Anna Maria Ortese contemplava la miseria di Napoli come una cosa eterna e senza speranza, che non meritava nemmeno di essere guardata. Corrado Alvaro annotava nel suo diario: «Povero paese, abituato a vedere esempi di miseria, egoismo, viltà, prepotenza in tutti i suoi rappresentanti, paese infelice che custodisce geloso la sua infelicità : che aspetta sempre da altri e da fuori benefici e favori, pronto a voltarsi a chiunque prometta o dimostri di essere potente». Perfino il distaccato Benedetto Croce, che pur in quelle ore contribuiva di persona alla rinascita dell'Italia politica, non poteva fare a meno di affidare al suo diario segreto considerazioni di grande sconforto e amarezza: vedeva la patria ridotta ai minimi termini, percorsa e depredata da eserciti stranieri, con la coscienza nazionale decomposta e umiliata, in balia dei risorti politicanti prefascisti che gl'i^iravano poca fiducia e nessuna simpatia. La musica non cambiava se si passava da un pensatore austero come Croce a un lepido scrittore satirico come Stefano Vanzina, meglio noto con lo pseudonimo di Steno, per il quale l'Italia del tempo esitava «tra le scatolette di biscotti americani e l'insalata russa». Un'Italia zoppa, afasica, sgraziata, che senza passo romano non sapeva più camminare, che aveva «perso lo stile di Achille Starace ma non ancora trovato quello di Pietro Nenni». Autorimbrotti, autocommiserazioni, quasi voluttuose autoflagellazioni, ritagliati però sempre su misura meridionale: il Sud delle luogotenenze provvisorie, dei primi governi Badoglio e Bonomi, delle svolte di Salerno imposte da Togliatti ai massimalisti dell'antifascismo quali Nenni, Lussu, Lombardi che volevano tutto, subito, qui, adesso. La caduta e la condanna senza appello della monarchia, la cacciata del re e dell'erede al trono, la Costituente repubblicana, infine la rivoluzione sociale. Lacrime e utopie, disprezzo per le vergogne e le corruttele del Sud monarchico e sanfedista, sogni di palingenesi e redenzione totale affidati al sano «vento del Nord» e ai partigiani in armi di Secchia e di I.uigi Longo, contrapposti agli inquinanti climi romani dei primi governi arcaicoliberali troppo prudenti e ancora troppo legittimisti. Ma era davvero degno di tanta disistima il Sud di allora? Se ripenso alla Bari della primavera 1945, so ne rivedo il fulgore luminoso con la gente indaffarata nel ricostruire e nel vivere, immersa in traffici leciti e meno leciti, dove la corruzione più giocosa dava la mano alla creatività più fantasiosa: se, per un attimo, riconsidero tutto questo, devo dire che i soliti piagnistei meridionalistici rappresentavano più gli uomori radicali delle élites del Sud che l'autentico stato d'animo del popolo. 11 quale andava, come poteva, per la sua strada, senza badare agli amari sofismi di chi lo voleva migliorare, europeizzare, emendare dai vizi ancestrali. I focolai di fetvore popolare e vitalistico sfuggivano, o nnn volevano essere visti né soppesati, dalla maggioranza degli intellettuali impegnati a denigrarsi e a denigrare il vecchio Paese in cui erano nati e cresciuti. Nella marea lagrimogena degli scritti dedicati alla fustigazione di quella tumultuosa temperie meridionale, doveva spiccare per la complessità e il vigore della visione d'insieme, Agostino Degli Espinosa, autore del libro più vero sulla storia arruffata del Regno del Sud. Nelle sue pagine ho ritrovato la spiegazione raziocinante delle im- firessioni confuse che, ancora adoescente, m'erano state trasmesse sul finire della guerra dall'anticipato dopoguerra pugliese. Ho potuto capire meglio quel clima eccezionale, misto di speranze e di corruzione, che la miseria e la forza delle cose provocavano conibinandosi con la sovrapposizione dei nuovi poteri alleati e italiani: l'apparente opulenza delle strade; i voraci mercati del porto; la quasi scostumata abbondanza dei negozi e del mercato nero al seguito delle sussistenze americane e inglesi. Molti disoccupati trovavano lavoro negli uffici messi in piedi dagli alleati, e godevano di un notevole benessere. A fianco delle occupazioni normali vi erano quelle trasgressive, che andavano dal furto alla «prostituzione libera». Ecco la descrizione dettagliata e avalutativa di Espincsa: «Rapidamente erano sorte efficienti organizzazioni per il commercio di farina, sigarette, coperte, scarpe, scatole di carne, di burro, di formaggio sottratte ai magazzini degli eserciti stranieri; organizzazioni che facevano capo ai magazzinieri e ai soldati alleati e si sviluppavano fino ai portieri che esercitavano la vendita al minuto». La sottrazione delle merci avveniva in genere al momento dello sbarco, a Bari, a Brindisi, a Taranto. In ogni porto agiva¬ no gli uomini di una data specializzazione. «In una strada secondaria un camion si fermava a un tratto e subito veniva circondato da ragazzi. Il conducente inglese o americano prendeva a buttare i pacchi e in un attimo, ultimata la distribuzione, ripartiva. I numerosi italiani che campavano su questa attività nutrivano una timorosa ammirazione per l'ampiezza dei colpi che i militari alleati organizzavano, ma in breve tempo anch'essi impararono il mestiere, e divennero maestri». La realtà viva, ancorché aggressiva, che materialmente risorgeva nel Sud, era questa e si differenziava dalla surrcaltà ideologica che spirava dai venti rosseggianti del Nord. L'Italia, che in un clima di furiose polemiche s'avviava alla Costituente e al referendum sulla monarchia, appariva spaccata in due: quella dei primi governi legittimi, controllati dalla Commissione alleata a Roma, e l'altra che fra poco avrebbe cercato nuove forme rivoluzionarie di governo nella Milano di piazzale l,oreto. La nostra famiglia era sbarcata in Puglia nel momento in cui la prima fase del Reg.no del Sud, che da Badoglio s'era protratta fino a Ivanoe Bonomi, stava per finire; incominciava l'esperimento Pani, che in qualche modo avrebbe dovuto ricomporre la frattura, immettendo nei palazzi romani qualcosa dello spirito della Resistenza. L'esperimento poi abortì fra aspettazioni palingenetic.he e più moderate proposte riformistiche. De Gasperi era già in lista d'attesa. La Linea Gotica non era stata superata ma, gradualmente, veniva cancellata e dimenticata. Il grande orchestratore del momento, il realista massimo che dal 194-4 andava voltando le spalle alla rivoluzione, all'utopismo partigiano, alle intemperanze dei fuorusciti e dei reduci di Ventotene, fu Palmiro Togliatti. Egli, freddamente, aveva deciso di dare tempo al tempo, accettando l'istituzione monarchica e partecipando ai governi Badoglio. Più che alla vittoria dei partigiani di Longo, Togliatti pensava al compromesso con la Chiesa di Pio XII. Stava attento a non scontrarsi con gli alleati, a non ripetere in Italia l'errore di calcolo compiuto in Grecia dai comunisti di Marcos. Dei piccoli partiti intellettualistici e moraleggianti, liberali, azionisti, demolaboristi, non gliene importava praticamente nulla, preferendo tessere combinazioni governative e istituzionali coi neonati partiti di massa, in particolare con la Democrazia cristiana. Già allora molti, stracciandosi le vesti, continuavano ad asserire che all'Italia purtroppo mancava un autentico partito conservatore di stampo britannico. Non era vero. In quell'età difficile, di macchinosa transizione dal fascismo alla democrazia imperfetta, dalla monarchia alla repubblica contestata, il «partito nuovo» di Togliatti svolse il ruolo di un'egregia supplenza del mancante partito conservatore. Forse soltanto Nenni, che conosceva bene la spiccata attitudine comunista ai trasformismi della Realpolitik, capì il senso di un paradosso che oggi D'Alema, sulle orme del maestro, torna a sublimare e a praticare con flessuosa accortezza dai vertici del governo. Il Dna, anche in politica, mente di rado. «Iprofessionisti del meridionalismo versavano lacrime sul declino, ma la gente era indaffarata a ricostruire e a vivere, immersa in traffici leciti e illeciti, fra corruzione e fantasia» «Più che alla vittoria dei partigiani Togliatti pensava al compromesso con Pio XII Stava attento a non scontrarsi con gli alleati; tesseva combinazioni governative con la de» «Bari ci accolse con un 'esplosione di luce che ai miei occhi appariva raddoppiata dalla memoria dei deprimenti Balcani» e poi l'uscita dal campo profughi inglese UD americani a russa Qui, le tracce e le edia, al contrario icini, non si vedefosse stato pei i nei dintonu, o le o a folle velocità i Incominciano«claddnz