I ragazzi dello zoo di Denver di Gabriele Romagnoli

I ragazzi dello zoo di Denver MICROCOSMO LITTLETON COSI' SI VIVE NEL SOBBORGO DELLA STRAGE I ragazzi dello zoo di Denver Un sogno comune: l'auto, per fuggire via reportage Gabriele Romagnoli inviato a LITTLETON «7 nostri genitori ci hanno dato la tv/ e sono scomparsi sulle loro auto/ i professori ci hanno dato una cattiva religione/ mal di sto maco e cicatrici/ Na na na nal Siamo indifesi». («Helpless» D Generation) Gli indifesi ragazzi di Littleton, Colorado, hanno appeso davanti alla scuola del massacro un grande cartello. Sopra, hanno scritto: «Dov'è il nostro futuro?». Bisogna cominciare dal passato, per trovare tracce della strada che prenderanno. Scorrendone le biografie, si legge, arrivano tutti da qualche altra parte dell'America in trasloco. Eric Harris, uno degli assassini, aveva vissuto con il padre pilota a Nord dello Stato di New York. Curiosamente, quando viveva lì, lui che ha sparato per primi agli atleti e ai neri, giocava a baseball e aveva per migliori amici un afro-americano e un asiatico. Poi è venuto a Littleton e nella sua testa qualcosa è cambiato. Anche molte delle sue vittime venivano da fuori (John Tomlin, sollevatore di pesi, dal Wisconsin; Kelly Fleming, piccola poetessa, dall'Arizona; Daniel Rohrbough, aspirante attore, dal Kansas). I cambi di lavoro dei genitori e le aspirazioni familiari a una vita tranquilla li hanno spinti in questo angolo di Colorado cresciuto troppo in fretta. La parola americana che definisce Littleton è «suburb», la traduzione sarebbe sobborgo, ma non rende l'idea. Il «suburbio» è un microcosmo, un mondo a parte, che sta attaccato a una città, ma non riesce mai a esserne parte, rimane, come il termine suggerisce, sotto; sotto il pelo dell'acqua, affiorandone per respirare l'aria da metropoli in spedizioni da fine settimana. Denver, in fondo, era a sole dieci miglia, ma i ragazzi indifesi abitavano ad anni luce: a Lit- tleton. Fondato nel 1890, il «suburbio» è stato per mezzo secolo prateria, casette e tradizioni western. Dopo la seconda guerra mondiale sono arrivate le industrie elettroniche e aeronautiche, portando capannoni di lamiera e villette della classe medio-alta che vi svolgeva lavori di concetto e arrivava lì da altri Stati. «Vicino al fiume c'è un museo di guetra/ fascino di macchine di morte/ La città di Disney o l'isola di Manhattan/ politici che realizzano i sogni di Hitler» («Rise and fall» D Generation) Era una città tranquilla. Come si dice in questi casi «non c'era bisogno di chiudere la porta a chiave». Nessuno si è accorto che stavano crescendo i ragazzi della D Generation. Il nome del complesso rock, il più amato del luogo, è un gioco di parole: in americano d-generation ha il suono di «degenerazione». Occorrevano orecchie e occhi sensibili per accorgersene, per vedere cho il microcosmo stava esplodendo. Dispersi ai piedi delle montagne del Colorado, con la prateria negli occhi, i ragazzi di Littleton hanno cercato un mondo che gli appartenesse, riti e miti diversi da quelli ufficiali. Ancora curiosamente, quando viveva nello Stato di New York Eric Harris portava con orgoglio il cappello dei Colorado Rockies, arrivato a Littleton ha cominciato a detestarli. Ed è altrettanto strano che pochissimi dei ragazzi abbiano maghe dei Broncos, campioni di football negli ultimi due anni. Ma quella è una squadra di Denver e il desiderio di diversità qui spinge a giocare a calcio (come Steven Cumow, ucciso a 14 anni) o andare a pesca (come Corey De Pe Pooter, ammazzato perché era, anche, un lottatore). Il desiderio di diversità spinge a cercare identificazione in gruppi ristretti e abbigliamenti che li caratterizzano. Non c'era solo la «Trench-coat-Mafia», esistevano anche, per dire, gli «Individualisti», che portavano abiti rigorosamente non firmati e detestavano chiunque vestisse Gap o Aber- cromb & Fitchie, che per gli adolescenti della profonda America sono già stilisti, anche se i loro capi li compri all'ingrosso ai magazzini di Castle Rock, sulla strada che porta a Colorado Springs. Bisogno di una identità particolare ed esistenze disperatamente comuni. Steven collezionava gadget di «Guerre stellari» e conosceva a memoria i dialoghi dei film della serie. Cassie amava «Braveheort» per via di Mei Gibson. Lui, lei, e Rachel e John avevano lavoretti part-time nella rivendita di panini, nella ferramenta, nel negozio di articoli da giardino. Risparmiavano per lo stesso sogno: un'automobile. Rachel voleva un'Acura rossa, Matthew una Toyota blu, Eric Harris aveva (già) una Bmw nera. Volevano un'auto perché porta via da Littleton, sulla strada per Denver che è tutta un mail (e loro, i ragazzi che ci ciondolano dentro, in bermuda se hanno gambe atletiche da mostrare, in «baggy pants», le campane di stoffa, se le hanno esili o storte), loro sono «mail rats», topi da centro commerciale, più guardare che comprare. Anche i loro sogni professionali portavano via da lì: Steven voleva entrare in marina, Daniel nell'aviazione, perché la carriera militare era per tutti il modo più facile per viaggiare e vedere, davvero, altri mondi. Ma quando Corey ha cercato di ondarsene, almeno per un po', da quel pisttume, a passare le vacanze di Pasqua, pensa te, a Oklahoma City, una tempesta di neve lo ho bloccato a un Holiday Inn nel Kansas. Angeli caduti in volo; seguaci della Forza e vittime del Lato Oscuro, come da saga di George Lucas; prigionieri del «suburbio»; per sempre indifesi. Dov'è il loro futuro? «Oh, bambina, siamo sulla buona nave che affonda/ viviamo ancora in questa città/ Una parte così grande di noi si perde/ mentre facciamo i bagagli da questa vita avvelenata». (*Good ship down» D Generation) Tanti i messaggi per ricordare le giovani vittime della strage nella scuola