PAVESE POETA

PAVESE POETA PAVESE POETA IL lento, faticoso riaccostarsi all'opera di Cesare Pavese non partirà, probabilmente, dalle sue poesie; che sono non tanto ardua parte di un mondo che affascinò rapidamente molti, e che poi sembrò deludere, quanto testimonianza enigmatica di una vocazione al narrare che, anche nel verso, e al suo primo affacciarsi al mondo, si esprimeva in un corrucciato epicizzare il quotidiano o nella mitizzazione trasfigurante di realtà remote e sconosciute. Quando ci si ripiega sulla poesia di Pavese, anche se lo si fa col distacco del dubbio, è impossibile non ritrovare l'impressione di favola lontana che sbalordì la nostra giovinezza. Leggere Lavorare stanca significò entrare in un paese che era, ad un tempo, tangibile e leggendario: quanto di questa impressione fosse dovuta alla forza della poesia e quanto alla sua natura e al suo andamento di racconto non credo sia facile dire. Emozionavano (emozionano ancora?) certi attacchi che erano improbabili nella poesia che ci avevano abituato a leggere («Le colline insensibili che riempiono il cielo / sono vive nell'alba, poi restano immobili / come fossero secoli, e il spie le guarda»); seduceva una figuratività che arriva dritta dritta da atmosfere nebbiose di destino e di fatalità (oggi ci sembrano intrise di quello spirito maudit che generò, che so, Ouai de brumes: ma sarà vero?): «I barconi risalgono adagio, sospinti e pesanti: / quasi immobili, fanno schiumare la viva corrente. / E' già quasi notte...»; la mormorante contabilità affabulatrice ci accompagnava con la sua seduzione crepuscolare e sottile, ci chiedeva una partecipazione non soltanto fantastica. Per tutto questo abbiamo amato la poesia di Lavorare stanca. E anche perché (era uno sbaglio) ci sembrava di ritrovare in lui il coraggio, e la capacità, di fare poesia della e con la ordinarietà dello spettacolo che la città offriva ogni giorno: e pensavamo a Baudelaire - eccolo, lo sbaglio... Ma come non restare legati, ancora oggi, a personaggi che furono mdimenticabiU? «Deola passa il mattino seduta al caffè / E nessuno la guarda. A quest'ora in città corron tutti / sotto il sole ancor fresco dell'alba...», con tutto quello che segue: oggi non ci piacciono più quei due tronchi («corron», «ancor»), ci sembrano un voler fare poesia ad ogni costo. Ma Deola si accampò a lungo nella nostra memoria di lettori di poesia; come le vecchie che prendono il sole, i giocatori di bocce, i molti contadini stremati di caldo, desideri e fantasie insoddisfatte. Ulisse ci sconcertò: raccontava, ci parve, la storia di ogni padre e di ogni figlio - era il Pavese che trasformava il quotidiano in mito. E poi leggevamo Notturna e ci prendeva la magia di cose viste tante volte e che diventavano visione, all'improvviso: «La collina è notturna, nel cielo chiaro. / Vi s'inquadra il tuo capo, che muove appena / e accompagna quel cielo. Sei come una nube / intravista fra i rami. Ti ride negli occhi / la stranezza di un cielo che non è il tuo». Pavese era già morto quando uscì Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: cominciarono allora i dubbi? C'era l'abituale, seducente e magica capacità di trasmettere emozioni semplici e antiche, ma avvertimmo un sapore un po' troppo marcato di letteratura, inutile negarlo. Poi c'era ima drammatica biografia che fatalmente si sovrapponeva alla poesia: quello che in Lavorare stanca aveva la suggestione della lontananza, ormai assumeva i contorni, aveva il peso troppo calcolabile di una vita vera. Eravamo in torto, e gliene facevamo uno non piccolo. Forse dovremmo rileggere la poesia (dei romanzi non dico, per quelli ci vuole il critico e non lo sono) con gli occhi della giovinezza. Che cosa è, o chi è, piuttosto Cesare Pavese per i giovani di oggi? Piero Ferrerò

Persone citate: Baudelaire, Cesare Pavese, Pavese, Piero Ferrerò