IL ROMANZO ha perso il lavoro di Mario Baudino

IL ROMANZO ha perso il lavoro Intellettuali o emai^inati: la narrativa italiana non sembra avere altri protagonisti Dove sono finiti i mestieri? IL ROMANZO ha perso il lavoro Mario Baudino Il IMPIEGATO di un ufficio / postale vicino a Roma riceve una lettera, da una sconosciuta rivista letteraria, 1 che lo invita a scrivere. Si licenzia, va nella capitale, e dà inizio al romanzo di Marco Lodoli, 1 fiori, appena edito da Einaudi. Dove ci sono altre e interessanti cose, ma lo spunto iniziale, questo voler diventare «poeta» per cambiare vita, ha il tono di un (arcaico) luogo comune nell'Italia dove tutti pensano di scrivere e pochi leggono. Il meglio che gli potrebbe capitare, date le premesse, è finire in un talk-show televisivo. Oppure di confermare un simbolo, quasi che il personaggio di Lodoli fosse nato in perfetta sincronia di tempo per dar ragione a quanto sostiene Filippo La Porta nella seconda edizione della sua Nuova narrativa italiana, uscita per Bollati-Boringhieri. La narrativa italiana, dice La Porta, è priva di «mestieri». I protagonisti sono in gran parte intellettuali (scrittori, professori, artisti, critici, giornalisti) o «emarginati». In mezzo non c'è niente. Anzi, ci sarebbe l'Italia, ma per questa e altra ragione i narratori danno l'impressione di mancarla clamorosamente. L'argomento non è nuovo. Toma a ogni bilancio (ricordiamo analoghe considerazioni in due libri di Mirella Serri e Renzo Paris) e non è certo un criterio assoluto per giudicare i libri. In fondo, che mestiere faceva il signor Palomar? Nessuno, ma ciò non ha impedito a Italo Calvino di scrivere un romanzo bellissimo. E don Gonzalo Pirobutirro, nella Cognizione del dolore! Era ingegnere come Gadda, parlava d'altro. E l'antipatico Leo degli Indifferenti di Moravia, di cui è memorabile solo la «bella carriera» che l'inconcludente Michele, se avesse avuto il coraggio di sparargli, avrebbe stroncato? n mestiere, se c'è, è un attributo secondario. E per La Porta, nella più recente letteratura italiana, il fenomeno si accentua. La «normalità» è un buco nero, dice. Anzi nerissimo visto che personaggi e protagonisti sono sempre più intellettuali-einarginati e emarginati-intellettuali. Ma la metafora del critico va aggiornata. La normalità è diventata un «centro sociale». Si campa disegnando fumetti manga per riviste giapponesi, come in Occhi sulla graticola di Tiziano Scarpa, o facendo i pattinatori come in Marco Bacci (il pattinatore, per l'appunto). Fra ex terroristi, spogliarelliste, studenti, ex sessantottini, militari di leva, ragazzi vagabondi, disoccupati, trionfa la categoria dei figli : in rivolta, problematici, tristi, felici ma sempre irrimediabilmente figli. Salvo eccezioni, mai un elettricista o un commesso o un camionista o un ragioniere o un medico che usino il proprio mestiere e il punto di vista, il linguaggio che ne deriva, come finestra sul inondo. Salvo eccezioni, com'è ovvio, e la più importante è il Primo Levi del Sistema Periodico e della Chiave a stella. Ma c'è stato anche lo psichiatra di Tubino, c'è ora il capitano di mare di Francesco Biamonti; c'è la collezione di mestieri che mette in opera Giuseppe Pontiggia nel suo VUe di uomini non illustri e ci sono i racconti di Giulio Mozzi, o per tornare più indietro gli artigiani di Bilenchi e di Parise. Ma la maggioranza della narrativa italiana sembrai aver preso congedo dai mestieri (eccezion fatta per la parentesi del neorealismo e della cosiddetta «letteratura industriale») non appena il Paese ha cominciato a modernizzarsi. E forse prima, dai tempi di Italo Svevo. L'Ulisse di Joyce, al contrario, è intasato dai mestieri e dai loro Im¬ guaggi, e grandi libri stranieri del Novecento si ricordano proprio per la eccezionale figura del protagonista: pensiamo ai medici, dalla Cittadella di Cronin a Ritorno dall'India di Yehoshua, ai maggiordomi di Wodehouse e soprattutto a quello di Lshiguro, che con Quel che resta del giorno ha edificato il vero monumento al «butler»; Saiman Rustiche ci ha raccontato i commercianti di spezie, e non si riesce a pensare ai «grandi borghesi» senza associarli a Thomas Mann. Dalla nuova narrativa irlandese e inglese ci arrivano tutti i mestieri (e i non mestieri) possibili delia working class, persino in un cantore degli emarginati come Irvine Wclsh. C'è una differenza «genetica» tra noi e gli altri? Una diffidenza nei confronti della cultura scientifica che ci ha impedito di costruire personaggi come il pro¬ fessor Bonn Creder di Saul Bellow (Ne muoiono più di crepacuore), illustre botanico da cui il protagonista, e nipote, vuole apprendere adclirittura l'esperienza della vita? O come il divulgatore scientifico di L'amore fatale di lari McEwan, i muratori di DeLillo o i cow boys (ma in questo caso sarebbe una pretesa grottesca: anche se ci sono pur sempre i butteri nella Maremma) di Connac McCarthy? Passi per la mancanza di piloti d'astronave (la fantascienza non è mai stata il nostro forte, e poi in America c'è Tom Wolfe); ma anche quelli d'aereo, nonostante D'Annunzio (e Liala) resteranno per sempre legati a Sadnt-Exupéry o, magari un poco più in segreto, al Gore Vidal che ha saputo scrivere uno dei suoi libri più belli con Kalki: una campionessa aeronautica incontra un reduce dal Viet-Nam e attraverso di lui anche la fine del mondo. Ma il vero protagonista è un «pilota» mitico, Shiva il distruttore. Il vero protagonista è il mito, che Vidal riesce a far scaturire, a scoprire nella sua forza terribile attraverso un «mestiere». Ci si potrebbe chiedere se non sia proprio in una forma di «realismo mitico» il destino vero del romanzo a cavallo del millennio. Ma il discorso porterebbe lontano. Qui interessa notare soprattutto che l'America resta un altro pianeta. Noi, escludendo ovviamente la letteratura che fa uso dei «generi», e quindi lasciando perdere commissari anche eccelsi come l'Ingravallo del Pasticdaccio di Gadda e il Santamaria di Frutterò 8- Lucentirii, abbiamo avuto la nostra stagione di operai. E almeno con Ottiero Ottieri o Paolo Volponi ci siamo difesi bene: ma salvo Ottieri va detto che erano spesso operai con un intellettuale nascosto dietro le spalle. E del resto, non c'era già un intellettuale che si prendeva cura del setaiolo Renzo Tramaglino, tenendolo ben lontano dai telai proprio nell'Ottocento dove il romanzo esaltava i mestieri? Lo sposo promesso di Manzoni, poveraccio, era ampiamente giustificato, visto che Don Rodrigo lo aveva sottratto d'imperio alle sue abituali attività. E tutti gli altri? A giudicare dall'abbondanza di emarginati fianco a fianco con gli intellettuali, viene il sospetto che la prima risposta stia ancora in un vecchio virus ideologico. Non si lavora (nei romanzi non si vuole, e con percentuali purtroppo crescenti anche nella società non si può), ma almeno possiamo prendercela col «sistema». baumar@nin.it O 110 23 LA STAMPA ^inati: la narrativa italiana non sembra avere altri protagonisti ROMANZO erso il lavoro VENERDÌ' 2Dove sono fin«Mco«EnulofaE «Cdi«Ndqcotavn«Iqstta Alberto Moravia Protagonista degli «Indifferenti» è Leo, destinato a «una bella carriera». Ma di quale carriera si tratti è un mistero Sarebbe stata troncata se l'inconcludente Michele avesse avuto il coraggio di sparargli italo Calvino Che lavoro faceva il signor Palomar? Non lo sapremo mai. Eppure nonostante il totale disancoraggio dalla realtà e grazie alle sue enigmatiche sonorità è uno dei più bei romanzi che Calvino ci abbia lasciato

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