lo, clandestino a Podgorica

lo, clandestino a Podgorica LE COLONNE DEI DANNATI VERSO LA SALVEZZA \( — - ;,,;,,v;.,v„,; ;. ; ' ,v..,,...., ,■ ,,„■ ; : „^__ lo, clandestino a Podgorica Tremila profughi al giorno verso l'Albania reportage Vincenzo lassandoli inviato a PODGORICA H| pullman salgono carichi dal I villaggio di Tuzi e si fermano H alla barriera di Bozaj, che è il lato montenegrino della frontiera. Uno ogni quindici, venti minuti, così da mercoledì quando qualcosa ha messo in moto una specie di tamtam e per i kosovari che si sono trascinati fin qui, in quella che chiamano la Jugoslavia dal volto umano, è scattato un nuovo allarme. Tremila e trecento l'altro giorno, altrettanti ieri: anche il posto di frontiera di Hani i Hotit diventa rovente. «C'è la polizia che cerca noi kosovari e ci dice di andarcene», racconta Sadei Zoyi, 53 anni, di Istoc, nei dintorni di Pec. Ha il volto largo, rasato, i capelli candidi, lo sguardo preoccupato. Sotto un giaccone di pelle scura porta quattro maglioni. Lo blocco alla barriera arrugginita che forse è stata bianca e rossa. Guida un gruppo di cinque donne e un ragazzo, tutti piegati da bagagli smisurati che si son trascinati attraverso la terra di nessuno. In Montenegro, dice, è rimasto soltanto un giorno, al villaggio di Roxhai, che è musulmano e più o meno ospitale. Quando ha lasciato Istoc, ricorda, «la casa bruciava e i serbi avevano ammazzato due* miei amici». Ora lui e i suoi guardano al di là della barriera, a quella folla ferma in attesa di fornire i dati alla polizia albanese. Son scesi dal pullman «15 Jul Cetinia», lo stesso sul quale, con un collega olandese e uno spagnolo, salgo per andare a Podgorica. Non paghiamo biglietto, anche se l'autista non è felice di averci sopra. Balaj Ramo, 37 anni, è il presidente dell'organizzazione di Madre Teresa, anche se, precisa, lui è musulmano. Pure lui è salito sul bus, arrivato alla frontiera per accompagnare i suoi, albanesi: «Dal Montenegro son passati 70 mila kosovari», assicura. Ci sono problemi? A questo punto spalanca gli occhi e tace. Poi racconta che gli esuli scivolano dall'altra parte della barriera oppure aspettano nei boschi Come quegli altri, che arrancano a ridosso della frontiera con la Macedonia, messi in fuga dai loro 200 villaggi dati alle fiamme e sospinti fin sui monti ancora innevati dai soldati serbi. C'è aria strana, a Podgorica, con i soldati serbi che non si fanno vedere. Debeli Brijeg fa il tassista ed ha accettato di ricondurrai alla frontiera. Dice: «Sono scoppiate delle bombe, dicono tre, poche ore fa, ma in periferia. So che hanno bombardato l'aeroporto, ma qui la gente non vi fa troppo caso». Pare che la guerra non riguardi questa città: i tavoli del caffè dell'Hotel Montenegro sono affollati, numerosi gli aperitivi, pochi i giornali. Non c'ò aria lugubre, i negozi sono aperti, appena una pattuglia in mimetica di soldati davanti al palazzo del governo: ma sono montenegrini. I distributori della benzina aperti, un litro di carburante costa 800 Uro e ancora nessuno s'è sognato di razionarlo. Si dice che giù al porto di Bar in un solo deposito ci sia una riserva di un milione e 200 mila litri. Trasferirlo nei serbatoi dei camion e dei carri armati serbi non deve essere poi un'operazione impossibile. Sotto a tutto, però, scorre una forte tensione e due giornalisti sono stati arrestati: Artur Masle, 42 anni, croato, del settimanale politico «Globus», e Igor Alberghetti, della Reuter. L'appuntaménto «politico» è per il tardo pomeriggio quando Momir Bulatovic porta in piazza i suoi fedelissimi, che poi sono i fedelissimi di Milosevic, definiti da tutti «molto aggressivi». Il punto è che questa è una città divisa in due, e l'ipotesi di un golpe diretto da Belgrado continua ad incombere su tutto. Ma la gente fa finta di vivere giorni normali. L'unica preoccupazione è arrivata dallo scontro alla frontiera con la Croazia, quella che Belgrado non riconosce, ma che il governo di Podgorica considera legale. E proprio su quella linea di demarcazione, alle prime luci, hanno sentito un boato: ma deve essere stato un «bang» di un jet diretto al cuore della Serbia e non una bomba. Di nuovo alla frontiera, in mozzo agli esuli che hanno occupato la terra di nessuno e aspettano mansueti di passare oltre. Poche le auto, naturalmente senza targa, come quella Volkswagen blu sulla quale oltre al guidatore conto sette fra donne e ragazzi, nascosti da enormi fagotti. Dall'altra parte della sbarra, in attesa una carovana di piccoli bus: il viaggio fino a Solitari, assicurano, è gratis. Almeno qui non succede come fra i predoni di Tropoje e quelli di Kukes che vendono quel metro quadro di terreno sul fianco aspro di un monte a coloro che devono seppellire i morti. Ma questa è l'altra faccia di un Paese che, in definitiva, ha sorpreso per la generosità mostrata, almeno fino ad oggi. Al colonnino che sorregge la barriera doganale, è appoggiato frate Vincenzo, 36 anni, dei francescani, di Gioiosa Ionica. In Albania da sette anni, dice che questo è il «peggiore di tutti». E quando gli chiedo che cosa manchi, a questa gente, mi risponde con un sorriso mesto: «L'affetto e qualcuno che condivida in qualche maniera le loro sventure. Noi facciamo quanto possiamo, portiamo un po' di pane e un po' d'acqua, non abbiamo altro. E io sono furibondo perché qui non s'è ancora visto nessuno delle organizzazioni, né quelli dell'Alto Commissariato né quelli dell'Osce». Lui dice, fa il pendolare da una parte all'altra della frontiera: «Il mio passaporto è questo, il saio, di là mi conoscono e non fanno storie». Dice così, «non fanno storie», e neppure sussulta quando la mitraglia prende ad abbaiare, 11 sulla riva del lago, a poche decine di metri. La capitale del Montenegro appare calma, in piazza solo i fedelissimi del regime federale I kosovari vagano per le montagne perché la polizia ai confini li manda indietro Sopra, una fiumana di profughi passa la frontiera tra la Macedonia e la Jugoslavia a Blace A fianco i fedelissimi di Bulatovic e di Milosevic in piazza ieri a Podgorica