Il costruttore di sogni

Il costruttore di sogni Il costruttore di sogni Djukanovic, il leader di Podgorica personaggio Giuseppa Zaccaria inviato a BELGRADO EI tempi in cui, dopo gli accordi di Bosnia, Slobodan Milosevic veniva definito dall'Amministrazione americana «grande costruttore di pace», in Montenegro cominciava a brillare la stella del «grande costruttore di sogni», cioè Milo Djukanovic, giovane, brillante presidente di una Repubblica che da quel giorno prese a giocare con la Serbia come fa il topo con l'elefante. Quel giorno è il 15 gennaio dell'anno scorso: allora, dopo un feroce ballottaggio, «Milo» vinse la corsa alla Presidenza contro l'ex amico Momir Bulatovic con un margine di appena 5000 voti, risicato anche in una Repubblica che in tutto conta 600 mila abitanti. In un'intervista di quei giorni disse a La Stampa che quei 5000 voti sarebbero stati importanti poiché «a volte avvenimenti trascurabili rendono possibili grandi virate». 11 sogno di una grande virata del Montenegro cominciò ad esplicitarsi allora: l'altissimo, bellissimo, giovanissimo Presidente (in quel momento aveva 35 anni) sembrava dischiudere al Paese scenari da sogno. Da Montenegro a «Montecarlo adriatica», un Paese i'inalinomi: sganciato dalle farragini del sistema di Belgrado, libero dalla fanghiglia dei condizionamenti etnici, aperto all'Occidente, pronto a decollare. Se oggi il Montenegro vive questo annuncio di dramma è anche perché quel decollo non si è mai verificato, nonostante un anno vissuto pericolosamente, un'influenza mcredib irniente cresciuta all'interno della Fede¬ razione jugoslava e un'amicizia particolarmente influente, quella di Bill Clinton. Dietro la velocissima parabola che rischia di interrompersi c'è la stessa parola-chiave che segnò la fine della «primavera di Belgrado»: investimenti. Meglio, la loro mancanza. Appena un anno fa gli amici di Milo invadevano i circoli che contano di Belgrado con un look aggressivo e una sicurezza che intimidiva. Gente, come definirla, un po' eccessiva, donne bellissime promosse a ruoli politici, qualche ministro-manager rigidamente targato Versaco che giungeva col piglio del demolitore. Un circolo ristretto e un po' pazzoide, molto aporto verso ì personaggi dello spettacolo, deciso a promuovere la nuova immagine del Montenegro con efficienza quasi craxiana. L'altra estate, per esempio, in un Montenegro dotato di una natura splendida ma anche di alberghi cadenti, la «new wave» montenegrina aveva pensato di promuovere il turismo d'elite invitando nello splendido isolotto di Sveti Stefan Sylvester Stallone e Claudia Schiller. Quest'ultima accompagnata da un giovanottone di nome Ratko Knesenjic, che da quel momento fu consacrato al ruolo di playboy. Di quel signore ho ancora un biglietto da visita che dice «Rappresentante economico del governo della Repubblica del Montenegro negli Stati Uniti». E su questo legamo con Washington il nuovo governo di Podgorica ha contato a occhi chiusi fino alla sera dei primi bombardamenti della Nato. Da quel momento certe convinzioni hanno preso a vacillare, e probabilmente il margine dei famosi 5000 voti a scomparire. Djukanovic emolitico moderno e cinico a sufficienza per giocare tutte le suo carte in mo¬ menti come questi. Peraltro, provenendo da una lunga scuola di partito conosce umori e tendenze dei montenegrini. Forse in questo momento gli piacerebbe far dimenticare il l'atto che la sua vera ascesa politica coincise con la cosiddetta «rivoluzione antiburocratica», quella che nel '92 condusse Milosevic a prendere in mano tutte le leve del potere. In Montenegro a fare questa «rivoluzione» (per eliminare dalla scena il leader di allora, Branko Kostic) furono proprio «Milo» e il suo attuale nemico Bulatovic. Quando, all'età di 29 anni, fu eletto premier del Montenegro, riempiendo i moduli ufficiali alla voce «occupazione precedente» il grande costruttore di sogni fu costretto a scrivere «disoccupato». Quest'ultimo anno, sembra, gli ha tolto qualche illusione circa l'autentico appoggio americano: con il suo gruppo di amici, «Milo» progettava la costruzione di un'autostrada in Montenegro (ma un grande gruppo tedesco gli ha negato il finanziamento), il rilancio dei casinò (ma varie società europee si sono spaventate per l'investimento a rischio), la creazione di posti di lavoro attraverso filiali di industrie europee (ma non una sola officina ha aperto i battenti). L'ambizioso programma di privatizzazioni ha dovuto segnare il passo, dunque, le condizioni del Paese restano stabili ma tendono al ribasso. E paradossalmente, la nuova situazione di guerra sembra risospingere il Montenegro verso il ruolo che Djukanovic tentava di scrollargli di dosso: quello di patria del mercato nero, delle forniture clandestino alla Serbia. Prima erano sigarette e armi, oggi la benzina: se «Milo» riuscirà a uscire da una simile crisi, dimostrerà davvero di essere un grande uomo politico.