I bambini ci guardano di Igor Man

I bambini ci guardano TACCUINO Memoria I bambini ci guardano Igor Man Ibambini ci guardano», ammoniva De Sica con quel suo film indimenticabile del 1943. Come a dire che i bambini giudicano il comportamento degli adulti davanti al tribunale della vita, specie quando la vita coincide con il tempo infame della guerra. Di più: per un adulto «normale» sarebbe relativamente facile leggere nello sguardo dei bambini la condanna e l'assoluzione, ma spesso per non dir sempre, l'adulto non òsa affrontare gli occhi degli innocenti. I bambini ci guardano inesorabilmente, i bambini del Kosovo in braccio .alla madre che fugge la guerra, ovvero attaccati alla gonna materna nel cammino lento e spossato verso l'ignoto. Ci guardano: dalle fotografie dei giornali, dai fotogrammi della tv. A furia di vederli, ripetitivamente, giorno dopo giorno, ha scritto qualcuno, l'emozione sfuma nell'assuefazione. Certo, ci si abitua a tutto, anche la tragedia più grande quando viene replicata troppo scade nella routine, opperò io continuo a pensare che in realtà noi i bambini kosovari li vediamo soltanto, non li guardiamo. Negli occhi, dico. Per non sentirci colpevoli della nostra fatale impotenza. I medici ci dicono che i bambini, «quei bambini», soffrono di turbe psichiche. La denutrizione può essere sconfitta facilmente, le turbe psichiche no. Il Vecchio Cronista riconosce nei volti dei bambini kosovari i tratti dei bambini libanesi demoliti psichicamente da quella lunga (17 anni) guerra incivile. Un anno prima che-le armi si tacessero, il dottor Paul Haddad, presidente della Società pediatrica libanese, mi riassunse il suo studio (cinquemila pagine) sul bambino libanese. Emerse, allora, una sindrome sconosciuta all'infanzia: la claustrofilia. Vale a dire una predilezio¬ ne «spinta sino alla nevrosi» per gli ambienti chiusi. Sognavano case senza finestre, e le disegnavano, case senza balconi. Insomma, un bunker. Vite straniate, bambini senza infanzia immersi nel liquido amniotico della violenza. Come il «leoncello» palestinese partito da Beirut, nel settembre del 1985, alla volta di Roma per «un attentato dimostrativo». Itab aveva 12 anni quando, durante la strage di Sabra e Shatila (do you remember Sabra e Shatila?), il campo dov'era nato da genitori profughi dal 1948, gli ammazzarono la madre, Miriam, la sorella Suhad di 22 anni e il fratello Fasdi di 14 e Ahmed il fratellino di 18 mesi. In galera, a Rebibbia, Itab ha scritto un libro curato da Renato Curdo per le edizioni «Sensibili alle foglie» (Roma). Un «leoncello» Itab, con una sola paura sconfinata: la paura del silenzio. «Il silenzio non mi faceva dormire (...). Una notte del 1983 mi venne l'idea: registrare su nastro un bombardamento. Era di notte che quel nastro mi teneva compagnia. Nelle notti silenziose e solitarie in cui, per prender sonno, l'ascoltavo». La società civile libanese sta ancora curando i guasti (psichici) di un conflitto orrendo, al cui modulo sembra ispirarsi la rovinosa spirale di morte e di orrore che sfigura la ex Jugoslavia, da Belgrado a Pristina.

Persone citate: De Sica, Paul Haddad, Renato Curdo, Sabra, Vite

Luoghi citati: Beirut, Belgrado, Jugoslavia, Kosovo, Pristina, Roma