«Rieccoli», tornano gli ex Dc

«Rieccoli», tornano gli ex Dc Iffi^pT^WOjtUM E |.A CORSA AL QUIRINAtE «Rieccoli», tornano gli ex Dc E Veltroni ammette: difficile dirgli di no retroscena Augusto Zinzolini ROMA LA prima conseguenza sta lì, ed è ormai sulla bocca di tutti, anche di quelli che avevano ben altro in testa per la scelta del nuovo Capo dello Stato. Ieri mattina al Bottegone, a poche ore dal fallimento del referendum, un tam-tam ha diffuso una battuta di Walter Veltroni, assertore fino al giorno prima della teoria del presidente bipo1 a rista. «A questo punto - ha ammesso il segretario della Quercia - come si fa a dire no a un candidato dei popolari per il Quirinale? Forse la cosa migliore per noi sarebbe la riconferma di Scalfaro». A parte l'ennesimo dibattito sulle riforme elettorali che rischia di non approdare a nulla, la prima conseguenza dell'esito del referendum la si vedrà di qui a poco, più precisamente dal 13 maggio, quando i grandi elettori cominceranno le votazioni in Parlamento per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. E quella battuta di Veltroni è la fotografia più efficace della sconfitta dei referendari: la giornata di ieri ricorda, hi miniatura, la fatidica vittoria della democrazia cristiana nel '48; da ieri i possibili papabili al soglio quirinalizio sono tutti ex-dc. Da Scalfaro a Mancino, dalla Jervolino a Marini. Insomma, arieccoli. Questo, che può essere considerato ormai un dato di fatto, stride con i discorsi che si erano sentiti nelle ultime settimane proprio nel campo referendario. Con i ragionamenti fatti sull'argomento da Veltroni, da Segni e addirittura fino a ieri sera dallo stesso Firn: il nuovo presidente nella loro testa doveva essere una sorta di sacerdote del maggioritario. Invece, a quanto pare, la corsa per il Quirinale si sta trasformando in una riedizione dei congressi de, giocata però nelle istituzioni. E, come ai vecchi tempi, ogni candidato risponde a una formu- la: Scalfaro sarà l'uomo che garantisce l'attuale maggioranza di governo; Mancino quello della mano tesa all'opposizione; Jervolino e Marini, invece, si sono ritagliati i ruoli dell'outsider. I nomi sono quelli, come pure le tattiche: tanfo che ieri qualche malizioso - forse senza sbagliare - ha insinuato che Marini ha lanciato il nome dell'attuale Presidente per bruciarlo, sapendo che Berlusconi avrebbe definito quella candidatura «una grave provocazione». E a riprova c'è l'ultima dichiarazione di ieri sera del segretario dei popolari: «Non sono uno sprovveduto e bisognerà ragionare sulla posizione di Berlusconi nei confronti di Scalfaro». Nel borsino e nei giochi, invece, non c'è più neppure l'ombra del nome di Ciampi, che proprio per aiutare i referendari giorni addietro aveva dichiarato di non aver mai disertato le urne nella sua lunga vita. Niente da fare: per il ruolo del garante dopo il nuovo 18 aprile ci sono solo loro, gli ultimi epigoni dello scudocrociato. Questo basta e avanza per dimostrare che la batosta di ieri per i profeti del niiovismo è stata pesante. Quando si perde, si perde. E in dodici ore se ne sono accorti tutti quelli che erano saliti sul treno del referendum per strappare qualcosa. Prodi, ad esempio, deve ringraziare la sua buona stella per aver avuto il posto in Europa prima del voto: se la questione si fosse posta dopo, è probabile che molta gente non si sarebbe più fatta in due per farglielo avere. «Ormai Romano - ironizzava ieri il capogruppo del Ppi Antonello Soro - sarà ricordato per il blob in cui giudicava l'inesistente vittoria del Sì un trionfo». Insieme al Professore, mia battuta d'arresto la subisce anche Di Pietro («oggi non posso proprio nascondermi»), che ieri si è visto rimbeccare dallo stesso D'Alema: «Con la dichiarazione di sabato in cui ha detto alla gente che per la vittoria del referendum sarebbe stato disposto a far cadere anche la sua proposta di una legge elettorale a doppio turno, ha dato un'immagine divisa dei referendari, ha disorientato un sacco di gente». Ci vuole poco per passare dalle stelle alla polvere. Fino a ieri, nel centro-sinistra il fattore determinante nella competizione elettorale rispondeva al nome di Di Pietro. Da ieri non è più così. Addirittura è lo stesso D'Alema a fregiarsi in proprio di quel titolo. A un amico che gli chiedeva perchè due giorni prima del voto avesse deciso di scendere in campo pubblicamente in favore del Sì, il premier ha risposto: «Che vuoi fare, mi avevano detto che erano al 40% per cui ho voluto dare il mio contributo. E a qualcosa deve essere servito visto che in due giorni hanno guadagnato il 9%». Anche questo dovevano subire i vari Prodi, Di Pietro e Veltroni... Ma almeno nel centro-sinistra le parti ai vari protagonisti erano già state assegnate: l'insuccesso non priverà Prodi dell'Europa, né Veltroni del partito; solo Di Pietro rimarrà ancora in sala d'attesa e forse non In lascerà mai. Nel centro-destra, invece, l'ennesima operazione anti-Cavaliere si è conclusa con un nulla di fatto, Peggio, il teatrante (come lo chiamano i suoi alleati) ieri ha rivendicato in pubblico di averi; più intuito politico «di alcuni professionisti della politica». Un vero smacco per i destinatari di quella battuta, per i vari Segni, Fini e Casini. E a nulla valgono le polemiche del giorno dopo: Segni che accusa Berlusconi di essere «il primo responsabile» della sconfitta del Sì e pone all'ordine del giorno il problema di una nuova leadership del centro-destra; Fini che litiga al telefono col Cavaliere e gli rimprovera «di non aver mosso un dito per il referendum». Inutile dire che entrambi sono anùnati da desideri di vendetta. «Chi pensa - minaccia il portavoce di An, Adolfo Urso - che ci comporteremo come dopo il fallimento della Bicamerale, che ci faremo condizionare dall'alleato, sbaglia. Saremo coerenti. Già sul Quirinale in Parlamento si formeranno degli schieramenti trasversali...». Mentre Publio Fiori già preconizza la fine dei due Po: «Si scomporrà sia lo schieramento di opposizione che quello di maggioranza». Minacce che rischiano di rivelarsi spuntate, di avere solo un effetto controproducente: quello di spingere Berlusconi a dialogare con gli altri vincitori del 18 aprile, con i popolari e gli altri centristi dell'Ulivo e magari anche con Bossi. Oggi sul Quirinale, un domani, chissà, sul cancellierato e su un sistema elettorale alla tedesca, da sempre un pallino segreto del Cavaliere come degli ex-dc. «Questi - è lo sfogo a cui si è lasciato andare Berlusconi con Giuliano Urbani, unico forzista schierato pubblicamente per il fronte del No - se avessero vinto per un voto avrebbero lasciato in piedi solo il maggioritario. Ora debbono essere coerenti: visto che hamio perso per un voto non ci debbono più rompere le scatole con il maggioritario. Da oggi imparo il tedesco». f t Scalfaro, il garante dell'attuale governo o Mancino, la mano tesa all'opposizione Più due outsider Battuta d'arresto per Ciampi che ha aiutato i referendari E il 13 maggio comincia la scalata Il capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro Sopra il premier Massimo D'Alema con il segretario del Ppi Franco Marini

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