Mancino: governo scelto dal popolo di Ugo Magri

Mancino: governo scelto dal popolo IL PRESIDENTE DEL SENATO IPOTIZZA LO SCENARIO DEL DOPO REFERENDUM Mancino: governo scelto dal popolo «E se c'è un ribaltone, si tomi a votare» intervista Ugo Magri ROMA ALL'INDOMANI dei risultati del 18 aprile, e alla vigilia della corsa al Quirinale, il presidente del Senato Nicola Mancino non è affatto convinto che che il fallimento del referendum abbia chiuso il capitolo della Grande Riforma. E in questa intervista rilancia l'appello a riformare le istituzioni e spiega qual è la sua ricetta. Presidente Mancino, il fronte del sì ha perso, le riforme possono aspettare. E' la tesi dei vincitori del «no». Condivide? «Eh, no. Non ho mai avuto dubbi sul dopo-referendum. E per quanto fossi obbligato al silenzio, per ovvie ragioni legate al ruolo istituzionale che ricopro, non ho mancato di sottolineare, in pubbliche dichiarazioni e in varie interviste, che subito dopo il 18 aprile, o al massimo subito dopo il 13 giugno, le forze politiche avrebbero dovuto riprendere il discorso sulle riforme». E' ancora della stessa opinione? «Sì, la riconfermo, in linea con quella prevalente nel Paese. Del resto, al di là di chi potesse vincere, anche secondo le previsioni il margine sarebbe stato così ridotto da spingere tutti, referendari e no, a una riconsiderazione dell'attuale assetto ordinamentale...». Presidente, si lasci interrompere. Che lei in passato sia stato il primo a parlare nel suo partito, il Ppi, di elezione diretta del Capo dello Stato, del doppio turno di collegio, questa è cosa nota. Ma korà interessa ' sapete se condivide il tam-tam che arriva dal «fronte del no»: per le riforme non c'è fretta, prendiamo tempo, pensiamoci sopra, addirittura non cambiamo nulla... «Guardi, il fronte del no è in certa misura diverso dal fronte delle astensioni. E quest'ultimo è così disomogeneo che sarebbe artificioso definirlo contrario alle riforme. Si pensi, ad esempio, al Friuli o alla Liguria rispetto alla Campania e alla Sardegna. Come possiamo mettere sullo stesso piano la minore partecipazione al voto di regioni così diverse nel reddito, nei servizi, nell'accostamento all'Europa?». Certo, non si può. E dunque? «Per me il disagio che si è espresso attraverso l'astensione ha radici così diverse che mette in discussione perfino la capacità della politica di dare risposte ai molteplici bisogni della gente, alle differenti esigenze dei nostri territori. Per chi fa politica, allora, il problema è quello di capire quali sono le ragioni del disagio: sarebbe troppo comodo spiegare tutto con l'antitesi Nord sviluppato-Sud arretrato. I disservizi nelle regioni centro-settentrionali creano risentimento al pari della disoccupazione nelle aree meridionali. Proprio quando la politica è giudicata insufficiente, allora cresce l'esigenza di ammodernarla». Ma lei, presidente, queste cose le avrebbe dette ugualmente, se avesse vinto il sì? «Certamente. Avrei ragionato allo stesso modo. Controlli l'archivio: l'esigenza delle riforme è stato sempre il mio chiodo fisso. In Senato cominciai a parlarne appena eletto, nella seconda meta degli Anni Settanta. Già allora, anche se non a molti, appariva chiaro che l'ordinamento uscito dall'Assemblea Costi- tuente risentiva delle prudenze di chi aveva temuto la vittoria dell' "altro". Quell'organizzazione del potere esecutivo non fu altrettanto fragile come nell'Italia liberale e pre-fascista per il diverso-- oonsenso^democratico ìnteWe anVflieHper le circostanze internazionali. Certo, essa si è dimostrata progressivamente inadeguata rispetto ai profondi mutamenti intervenuti nella realtà del Paese». Ecco, presidente Mancino, vuol spiegarci che cosa c'entra tutto questo con la situazione attuale? «C'entra per dire che il partito unico della 'conservazione istituzionale" non è affatto nato ieri, è sempre stato in agguato ed ha attraversato un tempo partiti come la De, il Pei e il Psi, mentre oggi attraversa gli schieramenti bipolari». Con il risultato che la commissione Bozzi falli, quella De Mita-lotti pure, e non si può dire che la Bicamerale di D'Alema abbia conosciuto miglior sorte... «No, guardi, passi avanti ne sono stati fatti. L'ultima Bicamerale, pur non avendo sciolto alcuni nodi sul versante della giustizia, del federalismo territoriale e fiscal» e del "bicefalismo" tra Capo dello Stato e capo del gover¬ no, ha portato in Parlamento delle proposte interessanti. Si possono discutere e, con alcune modifiche, approvare. Personalmente sono convinto che bisogna riprendere da dove si è lasciato, facendo avanzare il processo riformatore. Esiziale, per il nostro Paese, sarebbe rimanere fermi». Esiziale, ha detto? «Sì. Con l'entrata dell'Italia nella moneta unica occorre avere chiara la dimensione dei nostri punti deboli, che sono la stabilità dei governi, la produzione, l'occupazione, la qualità dei servizi, il funzionamento della pubblica amministrazione. Essere competitivi non è un'aspirazione ma una vera e propria condizione. Bisogna realizzare questa condizione, mettendo'mano alle grandi innovazioni e facendo per conseguenza aumentare la fiducia della nostra gente in un avvenire fatto di certezze e di crescita, di riequilibri nella produzione del reddito e di pari dignità con i Paesi europei più sviluppati». Torniamo alle riforme. Tra quella costituzionale e quella elettorale, quale ritiene più urgente? «L'ima e l'altra insieme. La riforma elettorale non è mai neutra, deve poter essere funzionale agli assetti istituzionali che ciascun Paese si dà. Durante la Bicamerale si affermava: "Facciamo prima le riforme, la legge elettorale poi le stabilizzerà". Personalmente reputo che, una volta delineato e concordato l'assetto dei poteri, centrali e territoriali, si può mettere mano alla legge elettorale, senza attendere il prima e il dopo. Una discussione franca, un comune sentire e poi un Cam- urinare insieme spediti. Tenendo conto che le due Camere possono lavorare parallelamente su temi diversi». Ma questo modo di procedere non potrebbe essere accusato di consociai,ivismo? «No, è solo buon senso. Le regole sono di tutti, nessuno deve imporle e nessuno subirle. L'intesa tra le forze politiche deve riguardare l'impianto complessivo. Su parti specifiche non tutti possono pensarla allo stesso modo, ma non per questo bisogna fermarsi. Importante è trovare, meglio, ritrovare lo spirito costituente. Nel 1947 si frantumi) il fronte governativo, con la sinistra che passò o fu mandata all'opposizione. Ciononostante non si bloccò il processo riformatore: a dicembre si conclusero i lavori e venne approvata la Carta Costituzionale. De Nicola, Terracini e De Gasperi, che la firmarono, rappresentavano tre culture politiche diverse, e non tutte e tre le culture erano presenti nel governo. Eppure il risultato fu raggiunto...». Pensa che oggi dovremmo seguire lo stesso metodo? «Certo che lo penso. Anzi, me lo auguro. La consapevolezza dell'urgenza delle riforme deve produrre un clima, deve accrescere il senso dei doveri». Indichi, per favore, l'indirizzo che dovrebbero avere le riforme, «Il popolo deve essere messo in grado di scegliere chi, in quel momento, gli appare più idoneo a governare. E quando chi, chiamato a governare, dovesse perdere per strada la maggioranza espressa dal corpo elettorale, il ricorso alle urne non sarebbe più un optional, ma un dovere sancito da apposita norma costituzionale». Insomma, si dovrebbe passare dalla centralità del Parlamento a quella del vero sovrano, che è il popolo. Ma lo ritiene possibile? «Bisogna lavorare a un sistema diverso, sapendo che fino a ora il nostro tallone d'Achille è stato la mancanza di stabilità dei governi: troppi e troppo dipendenti dagli equilibri fra i partiti o addirittura nei partiti. Ma la stabilità degli esecutivi non può essere realizzata a danno del Parlamento, che deve conservare la sua centralità». Ultima domanda: ritiene che la sconfitta del sì influirà sull'elezione del nuovo Capo dello Stato? «Lo escludo. Ma lo avrei escluso anche se il quorum fosse stato raggiunto...». Il presidente del Senato Nicola Mancino Alla sua destra dall'arto il premier Massimo D'Alema, il segretario del Ppi Marini e il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi L'EUROPA «Per essere competitivi si deve rimediare ai punti deboli come l'instabilità di governo e il cattivo funzionamento della pubblica amministrazione» LA BICAMERALE «Dalla commissione sono giunte proposte che il Parlamento potrebbe approvare» LE RIFORME «Nel '47 il fronte governativo si frantumò, ma non per questo si bloccarono anche i lavori per la Carta costituzionale Basterebbe fare come allora»

Luoghi citati: Campania, Europa, Friuli, Italia, Liguria, Roma, Sardegna