Verso l'Albania 100 mila disperati passati dal corridoio dell'orrore

Verso l'Albania 100 mila disperati passati dal corridoio dell'orrore Verso l'Albania 100 mila disperati passati dal corridoio dell'orrore reportage Vincemo Iettandoli inviato a TIRANA Il volto di Afrim Bytyci pare una maschera senza espressione. Lui ha 14 anni. Forse. Una notte, più o meno una settimana fa, è arrivato dal Kosovo confuso in una colonna che scendeva dal posto di frontiera con il Montenegro di Hani i Hotit. Non parlava, schiacciato, spiegano i medici dell'ospedale di Scutari, da uno choc tremendo: tranne loro, nessuno conosce la sua voce. E la sua tragedia segreta lui l'ha raccontato soltanto a quelli dell'ospedale. In un giorno che pare remoto i serbi hanno ucciso i suoi genitori, i due fratelli e la sorella. Per questo, ora, Afrim non si aspetta più niente dalla vita ed è come se volesse andarsene. Dice il dottor Adrian Dajti che «non è collaborativo e senza il suo aiuto, non ce la faremo a tirarlo fuori». Non è finita, sembra non dover finire mai la tragedia degli esuli e, secondo l'Unhcr, l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati, in oltre 50 mila premerebbero a Morina, sopra Kukes, e ieri, attraverso quella barriera, ne sarebbero filtrati 5 mila, donne e bambini soprattutto. Il dato dei 50 mila profughi già al confino è confermato dal ministro dell'informazione albanese Musa Ulqini, secondo il quale entro questa mattina dovrebbero arrivarne altri 50 mila. Ulqini spiega che le forze di sicurezza serbe stanno costringendo alla fuga anche i civili che vivono nella regione centrale di Drenica, un tempo zona controllata dai guerriglieri secessionisti dell'Uck. Troviamo Jamwski, portavoce dell'Alto Commissariato, che ieri accusava: «1 civili vengono rastrellati brutalmente. Esiste un corridoio dell'orrore». «E' stato uno dei giorni più difficili sul fronte dell'emergenza umanitaria», ha detto il prefetto Kemal Elezi. E di là dalla frontiera, nell'inferno chiamato Kosovo, solo Dio e i serbi sanno che cosa accada realmente. Filtra che Microvica, a circa 200 chilometri dalla frontiera, su 200 mila abitanti ne sarebbero fuggiti 120 mila, spinti dai serbi verso l'Albania. E' per questo che a Kukes si trema, e si trema anche perché i serbi potrebbero decidere di far fuoco contro la cittadina ed i suoi campi, quelli organizzati e quello sterminato all'aperto, già assediato dall'immondizia e dalla disperazione. Del resto sono ormai otto giorni che i serbi martellano la zona di Tropoje e Polaj e, più a Nord, quella di Zherka, a Sud Est di Kamenica, bombardata all'inizio della settimana. Nella prima tendopoli tirata su dagli italiani a Kukes sopravvivono in 6 mila in uno spazio previsto per la metà; ora è quasi pronto un secondo campo, dove verranno sistemati altri 6 mila disperati. E poi, da lunedì, si lavorerà anche giù a Sud, a Valona, dove si spera di poter mettere altri nuova folla a ari serbi 5 mila esuli. Sembra quasi impossibile, ma insieme alla tragedia collettiva, c'è anche chi, oltre alle poche cose e ai ricordi dolenti, si trascina dietro pure rancori inestinguibili. Così, l'altra sera, in un bar di Shengjin, sul mare, vicino alla città di Lezha, è entrato Shaban Zukàj, 30 anni, di Belege, arrivato dal Kosovo via Montenegro tre giorni avanti. Si è avvicinato al tavolo di Mehmet Devishi, 35 anni, e di Yonuz Myftari, 44 anni, padre di sei figli. E ha sparato, per ammazzare Devishi. Lo ha soltanto ferito alle gambe, e invece ha abbattuto con la sua raffica Myftari. Stavolta, la polizia ha preso lo sparatore. Ogni notte quelli dell'Uck tentano la sorte di là dal confine e impegnano i serbi in combattimenti ravvicinati che costano un prezzo alto. All'ospedale di Bjram Curri, Tamia, la dottoressa del campo Uck di Papaj, quello a ridosso della frontiera, stavolta ha portato tre morti e due feriti. Ed è stata un'altra notte terribili, con i medici costretti ad operare quasi senza anestesia. «Soltanto un'iniezione finale di Lidocaina, che prepariamo qui e che ha effetti anestestici ridotti» mi spiega Sokol Sula, 55 anni, primario chirurgo, un ometto basso e quasi calvo, col volto largo e il sorriso rassicurante. Questo è un ospedale dimenticato in una cittadina dimenticata. Ci sono due sale operatorie, la prima è fuori uso. Quando mi sono affacciato sulla soglia, un ragazzo sui 20 anni, disteso su un lettino, mi ha lanciato uno sguardo carico di speranza: mi avevano fatto indossare il camice bianco e calzare un paio di logore ciabatte perché «tutto deve essere sterile», aveva spiegato il dottor Bardhyl Jcobilja, 33, anestesista, indifferente a quel mucchio di garze putride buttato sul carrello accanto al lettino col ferito. La seconda sala operatoria, quella è «ok». Si trova accanto, e ora è deserta. Ma pure qui molti macchinari sono ormai fuori combattimento e il primario ha steso un elenco in dieci punti: l'aspiratore anestetico, il monitor cardiaco, l'ossimetro... Ogni notte, tutte le notti, è allarme. Quelli dell'Uck, l'esercito di liberazione del Kosovo, sembrano avere come di punto d'impegno di riportare alla base non soltanto i compagni feriti ma anche quelli ammazzati. E allora tocca sempre a lei, a Tamia: scende dalla montagna su un fuoristrada a fari spenti, percorre una pista che a tratti scompare nel fango. Sono corse disperate, le sue, col cuore che ti batte così forte da farti pensare che stia per scoppiare. Se il ferito è grave, soltanto nelle mani del chirurgo Sula ci può essere l'unica chance. «Quando arrivano, ogni volta, speriamo di poter fare qualcosa», sospira il medico. E rigira nelle mani una dozzina di cartelle con le copertine verde pisello. Con puntiglio vi ha segnato tutto, anche i più piccoli dettagli, le cause della morte, e di quelle che non vorrebbe chiamare sconfitte. E anche i punti che hanno deciso i «successi»: i sopravvissuti. Al valico di Monna la nuova folla di profughi spinti dalla rappresaglia dei militari serbi

Luoghi citati: Albania, Kosovo, Montenegro, Tirana