Il convoglio della morte di Giuseppe Zaccaria

Il convoglio della morte Quasi tutte albanesi le vittime. Belgrado accusa gli aerei Nato, l'Alleanza: li avete colpiti voi Il convoglio della morte Bombardato in Kosovo: 75 morti Giuseppe Zaccaria inviato a BELGRADO Un altro «errore tecnico» della Nato con almeno 75 morti, forse di più: e questa volta si tratta di profughi albanesi. Se mai ci sarà un limite giunti al quale questa folle corsa al disastro potrà essere fermata, il carnaio del ponte di Bistraziri ne rappresenta il punto più vicino. Verso le 13 di ieri, durante una delle continue incursioni sul Kosovo due o tre aerei della Nato (le fonti sono ancora imprecise) hanno attaccato il ponte che sulla strada fra Djakovica e Prizren costeggia un villaggio chiamato Moja. In quei momenti una lunga colonna di profughi albanesi stava attraversando la zona, scortata dai mezzi dell'esercito serbo. Le bombe non hanno fatto distinzioni fra etnie, anzi, per un caso grottesco, hanno risparmiato i poliziotti serbi (tre feriti) per fare strage di coloro che con le stesse bombe si sarebbero dovuti proteggere. Il bilancio del massacro è ancora incerto: le prime fonti parlavano di 46 morti, la Cnn di 76, il portavoce del ministero degli Esteri di Belgrado, Nejbosa Vujovic, ha detto 75. A tarda sera, lo stato maggiore dell'annata serba in Kosovo ridimensionava addirittura, con precisione tutta militare, dicendo che fino al tramonto erano stati «recuperati i corpi tli venti vittime», anche se l'opera di soccorso proseguiva «in condizioni molto difficili», Per telefono un giovane giornalista serbo che parla da Pristina mi ha appena descritto sconvolto quelle «condizioni». «Sulla strada c'erano tre corpi assolutamente smembrati - dice -. Solo dai vestiti si capiva che erano appartenuti ad un vecchio, una donna, una ragazzina. Subito oltre il ponte c'era una casa che adesso non c'è più, e lì dentro hanno tro- vato sei morti... Ho visto tronchi decapitati, membra maciullate sotto le macerie...». Se mai queste immagini potranno arrivare nelle nostre case, forse sarà possibile cogliere l'altra faccia del dramma, superare la grande zona d'ombra della propaganda che continua ad impedire ogni visione corretta dei fatti. Quei profughi stavano tornando verso il Kosovo: quasi certamente si trattava di gente bloccata per giorni ai posti di frontiera di Vrbnica e di Cliafa Prusit, verso l'Albania. Costretti dai serbi o dal bisogno, convinti dalla lame o dalle rassicurazioni, stavano tornando verso i propri villaggi. Le prime stime parlano di un corteo di mille persone, a tarda soia la tv serba dice invece «vise hiljada», alcune migliaia: sembra certo che viaggiassero in due lunghi cortei, preceduti e seguiti da mezzi militari jugoslavi. E adesso è esattamente a questa circostanza che la costernazione dei vertici Nato cerca di appigliarsi: l'Alleanza Atlantica conferma i bombardamenti in quell'area, sostiene che «indagini sono in corso», ma toma a proporre la teoria degli albanesi usati come «scudi umani» dalle tnippe serbe. Il Pentagono ha fatto notare che dagli autocarri sono scesi soldati serbi, il vicedirettore dello stato maggiore, Charles Wald, ha espresso forti dubbi sulla possibilità che le bombe siano slate lanciate da piloti americani. «I nostri piloti non attaccherebbero mai un convoglio di civili - ha detto - e se ci fosse stata soltanto un'ombra di dubbio, si sarebbero astenuti da sganciare le bombe». Un portavoce di Washington ha anche suggerito che nella zona volassero aerei serbi. Questa volta però le acrobazie semantiche non sembrano sufficienti. Per la Nato - per noi - un ponte che salta a Novi Sad mentre alcune auto ili civili lo attraversano può anche costituire «un errore». Un quartiere che ad Alexinac viene distrutto solo perché è vicino a una caserma può anche rappresentare «una tragica fatalità». Si può perfino fìngere che un treno arrostito con i suoi passeggeri su un ponte della Morava sia stato conseguenza di «un fatto non intenzionale di cui la Nato si rammarica». Ma questo ennesimo massacro? E' davvero difficile immaginare che una colonna di profughi preceduta e seguita da mezzi militari (dunque scortata, protetta, magari controllata o se si preferisce forzata a muoversi) diventi «scudo» degli stessi carri che lentissimamente la accompagnano o la sospingono verso casa. Le testimonianze peraltro convergono dopo il primo attacco. 1 jet occidentali sono piombati ancora sul ponte per altre due ondate di bombardamenti. A tarda notte la Tanjug, agenzia ufficiale jugoslava, comincia a diffondere testimonianze di albanesi che hanno perduto figli, sorelle e padri. Sono pochissimi i diplomatici dei Paesi Nato rimasti a Belgrado, e posso personalmente garantire che ieri sera il loro smarrimento era totale. Milan Milutinovic, il presidente della Serbia, non ha dovuto neanche far ricorso alla furia per commentare questa tragedia: «E' un crimine senza precedenti - dichiara -, quegli albanesi sono morti solo perché avevano scelto di tornare assieme coi serbi: la Nato sarà giudicata dall'umanità intera». Nell'attesa forse è giunto il momento di giudicare almeno sulla congruità fra scopi e mezzi. Con questa strage, le vittime civili dei «bombardamenti umanitari» si avviano a sfiorare le 400, il numero dei feriti sale vertiginosamente, la frattura fra .Iugoslavia ed Occidente - anche il più vicino • continua ad allargarsi tramutando le distanze in baratri Ed in questi spazi tornano atl infilarsi quei Paesi da cui nella sua tormentata storia recente Belgrado aveva sempre cercato di tenersi lontana, nonostante l'epica delle comuni origini slave Ieri nella capitale, tra un'incursione e l'altra, è atterrato Alexander Lulcashenko, presidente della Bielorussia, Poco prima, nella capitale era giunto un lungo convoglio di camion ed autobotti che portavano da Est ai belgradesi imprecisati «aiuti umanitari». E' stalo per l'amico bielorusso che Slobodan Milosevic è riapparso in pubblico per la prima volta dall'inizio di questa guerra. La televisione lo ha mostrato sorridente, come se l'attacco del mondo non l'avesse fiaccato per nulla. Inni nazionali, un lungo abbracciò, come tra fratelli, e poi colloqui nella villa di «Bieli Dvor», sulla collina di Dedinje, particolarmente presa di mira dai bombardamenti. Al termine dell'incontro una dichiarazione di Lukashenko è sembrata aprire spazi per nuove trattative: Milosevic, dice il visitatore, è pronto ad accettare in Jugoslavia la presenza di osservatori internazionali, purché si tratti di civili che non provengano da nessuno dei Paesi coinvolti nei bombardamenti. Dalla Presidenza belgradese nessuna confo mia. Ma su questo punto si finge di traitare da quattro settimane, quando basterebbe ricordare clic Milosevic offri questa soluzione già un mese la durante l'ultimo incontro con Richard 01brooke, come un prestigiatore tenta di fare lasciando spuntare l'ultima carta dalla manica. A questa soluzione il regime jugoslavo e pronto da tempo: meglio, lo era prima che la Nato scatenasse i bombardamenti che dopo settimane di distruzioni e massacri, oggi paiono poter condurre al massimo alla soluzione che era stata respinta un mese fa. Era gente che stava tornando nelle loro case scortata da militari serbi Il bilancio della strage è incerto molti corpi sono smembrati Una donna, gravemente ferita, nell'attacco a Moja dove ci sono state decine di morti ifoto reittfr]

Persone citate: Alexander Lulcashenko, Charles Wald, Lukashenko, Milan Milutinovic, Milosevic, Slobodan Milosevic, Vujovic