Commendo serbo entra in Albania

Commendo serbo entra in Albania i militari bruciano il villaggio di Kamenica, poi ripiegano. Belgrado smentisce l'incursione Commendo serbo entra in Albania A caccia di guerriglieri, un'ora di battaglia Vincenzo Tassandoti inviatoa QAFA~E MEIDANJIT (contine Albania-Kosovo) «Siamo accerchiati, ci sparano», esplode la voce dalla radio della Land Rover «dono del governo britannico alla polizia albanese», sulla quale sto tornando a Tropoje, cannoneggiata l'altro giorno. Ancora: «Che cosa dobbiamo fare?». «Resistete, siate uomini», ordinano dal comando di Bajram Curri. «Ma qui è un casino, i serbi stanno bruciando due case». Comincia così, alle 13,15, una battaglia negata. Breve, incruenta, ma dannatamente pericolosa perché a chiedere aiuto erano quelli del posto di polizia di Kamenica, trenta case da giorni deserte, in terra albanese, a duecento metri dalla frontiera, un quarto d'ora a piedi, sul fianco scosceso del monte. Nascosti dalle nuvole che avvolgono tutto, armati di mitra e mortai leggeri, i serbi erano arrivati da quella montagna e ora sono qui. Dal comando albanese ripetono l'ordine: «Resistete, vi aiuteremo». «Ma sono troppi...». «Se ve la vedete male, ritiratevi». E' difficile organizzare un contrattacco con l'esercito acquartierato miglia lontano, le truppe speciali della polizia in marcia chissà dove e gli agenti di qui impreparati ad affrontare un nemico organizzato. Eppure, qualcosa si deve fare, e subito, perché i serbi hanno preso possesso di quelle trenta case basse e grigie e sembrano volerne fare scempio. E, soprattutto, hanno invaso l'Albania. Per poco, d'accordo, ma sono in Albania. Più tardi, Belgrado negherà tutto, Tirana parlerà di sconfinamento e la Nato preciserà che non s'è trattato di «un'invasione». Ma la situazione è rovente, perché soltanto poche ore prima gli albanesi avevano chiesto all'Alleanza Atlantica di sistemare con gli aerei i raparti serbi appostati sul crinale dei monti di Tropoje che ogni giorno, per ore, si dedicano al martellamento dei villaggi a ridosso dolili frontiera, spesso alla caccia di quelli dell'Uck, l'esercito di liberazione del Kosovo. Muarrem Giuriqi, capo della polizia di Bajram Curri, salta su un fuoristrada e chiama i suoi a raccolta: «C'è la guerra, sono en- trati i serbi». E subito dopo, rimbalza in paese un'altra voce: «Stanno marciando su Tropoje». Lassù a Kamenica lo scontro era finito con la polizia albanese attenta osservatrice, fuori dall'abitato, i rinforzi che accorrevano fino a concentrarsi qui, sulla collina di Qafa e Meidanjt, dalla quale si intravede il paese, laggiù in fondo, appiattito sul fianco del monte, e si scorgono alcune sottili colonne di fumo. Le 13,55, l'operazione serba è conclusa, c'è da pensare con successo, i soldati ripiegano lasciandosi dietro quattro ruderi fumanti e uno spinoso problema. L'attacco serbo, spiegherà Pierre, osservatore dell'Osce, l'Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, sarebbe l'epilogo di una serie di scontri avvenuti in piena notte quando quelli dell'Uck hanno attaccato il villaggio di Kasharaj, pochi chilometri dentro il Kosovo. I serbi avevano reagito e ingaggiato battaglia con i kosovari. Era andata avanti per ore, con imboscata e ripiegamento, finché alle 4 avevano agganciato la colonna dell'Uck ed era stato scontro feroce: quattro kosovari morti, altri feriti; nessuna notizia da parte serba. Ma anche loro devono aver patito danni, tanto da non considerare chiusa la faccenda: così hanno deciso un'azione che venga letta come un castigo. E alle 10 hanno cominciato i preparativi di quello che aveva tutta l'aria di essera un inseguimento senza, quartiere, aisl Ma Kamenica non è una base dell'Uck, ci sono soltanto quei sette poliziotti scalognati che ora urlano nella radio: «Siamo circondati». I serbi fanno fuoco sul comando, frugano il paese casa per casa e bruciano quelle che, forse, ritengono adatte a dar riparo all'esercito kosovaro o, magari, soltanto perché è più a portata di mano. Dalla collina di Qafa e Meidanjt si progetta la riconquista. Arrivano dal confine camionette con i ragazzi in tuta mimetica, con lo stemma dell'Uck al braccio. Riza Xhedia, un contadino ossuto e vociante di Vicidol, che è a due passi, ne blocca una: «Ma che cosa fate? Per tutta la giornata di ieri, anziché bombardare i serbi avete bombardato noi». Quelli ripartono, senza rispondere. Eppure, dice imo al campo di Ragam, due catapecchie circondate da ruderi a metà fra Tropoje e il confine, «il morale è buono». Ma i visi sono cupi, e quello di Qamil Yasiqi pare sgomento. Lui ha 26 anni, da uno è nell'Uck, prima era contadino. Ora si trova in un lettino del reparto di chirurgia all'ospedale di Bajram Curri. «Una granata l'ha beccato alla gamba destra e rischia l'amputazione, se non riusciranno a portarlo via, perché qui manca tutto». Attorno al letto di Qamil ci sono i familiari, dieci persone fuggite da Gimik. Nel let¬ to accanto, sotto l'effetto di un sedativo, dorme Demush Gaxaferi, 30 anni e un barbone rosso. Un proiettile di kalashnikov l'ha colpito allo scroto, gli hanno asportato un testicolo. «Ma ora sta bene», assicura il medico. Dicono sempre di star bene, quelli dell'Uck, il comandante del campo di accoglienza di Babin assicura che «siamo ih numero sufficiente per liberare la nostra terra. E spero che con l'aiuto della Nato ce la faremo al più presto». Ma voi andate di là. a combattere? «Non ne abbiamo bisogno, perché i nostri stanno già combattendo laggiù». Avete armi sufficienti? «Abbiamo cominciato questa guerra e la porteremo avanti. Anche se le armi non sono mai abbastanza. No, l'esercito albanese non ci aiuta molto perché ha ì suoi problemi». Ma non subite troppe perdite? «Al contrario, pensiamo che i morti dell'Uck siano pochi a confronto della gente che i serbi ammazzano in Kosovo». A sera, a Tropoje, i suoi mostrano fiammanti snipers, i fucili di precisione made in Usa. Ora la rappresaglia tli Kamenica è davvero finita e il poliziotto Giuriqi dice: «Se ne sono andati. Erano cinquanta, o forse cento. Li abbiamo inseguiti sparandogli dietro». Secondo il bollettino di giornata: nessuna perdita, da nessuna parte.

Persone citate: Bajram Curri, Riza Xhedia