Guerra giusta per avere pace giusta

Guerra giusta per avere pace giusta La prova più diffìcile che la generazione al potere in Europa ha mai avuto davanti Guerra giusta per avere pace giusta Walter Veltroni LA crisi balcanica ha riacceso la discussione sulla «guerra giusta»: quando e a che condizioni può essere legittimato l'uso della forza nei rapporti internazionali? Antonio Cassese, giudice del Tribunale internazionale dell'Aja per i crimini di guerra, ha parlato nei giorni scorsi dell'emergere di una nuova dottrina, che sta spingendo per una revisione della stessa Carta delle Nazioni Unite. Secondo Cassese, l'uso della forza è legittimo «solo se sussistono cinque condizioni ben precise: 1) lo Stato contro cui si usa la forza ha violato in modo gravissimo, massiccio e ripetuto i diritti umani fondamentali; 21 il Consiglio di Sicurezza ha ripetutamente invitato quello Stato a porre termine ai massacri; 3) è stata tentata ogni possibile soluzione diplomatica e pacifica; 4) l'uso della forza è sostenuto da un gruppo di Stati e non da una singola potenza e la maggioranza degli Stati dell'Onu non è contraria a tale uso; 5) il ricorso alla guerra non ha alternative rispetto alla prosecuzione dei massacri da parte dello Stato responsabile». Se queste sono le regole (ed è difficile non concordare con Cassese), l'intervento armato dell'Alleanza atlantica in Jugoslavia non può non essere considerato legittimo. E tuttavia, sul piano politico, assai più della disputa sulla «guerra giusta», andrebbe a mio modo di vedere avviata una riflessione sulla «pace giusta». E' la pace, infatti, e non la guerra, l'obiettivo verso il quale deve tendere, sempre, l'azione politica. Ma la pace, per essere vera, deve essere «giusta»: deve fondarsi sul rispetto dei diritti umani fondamentali. Altrimenti non è vera pace e può diventare perfino condiscendenza ed acquiescenza, ipocrita e vile, dinanzi all'ingiustizia, al sopruso, all'oppressione. «Quando ci sono di mezzo delle vite umane • ha scritto nei giorni scorsi su "Newsweek" il premio Nobel per la pace, Elio Wiesel l'indifferenza non è una risposta. Non scegliere è anch'essa una scelta, diceva il filosofo francese Albert Camus. La neutralità aiuta l'aggressore, non le sue vittime». La «pace giusta» è l'obiettivo al quale tendo la nuova sinistra democratica, oggi alla guida di quasi tutte le nazioni europee. Una sinistra che sta ricercando proprio nell'etica dei diritti umani i parametri eh un nuovo internazionalismo. Come ha scritto il direttore di «Le Monde», Jean-Marie Colombani, «siamo entrati in un mondo nuovo, nel quale le sovraiùtà nazionali non sono più quelle che erano, emerge una "comunità intemazionale", si imporranno dei protettorati, tutte innovazioni che possono condurre, perché no, a più "morale" e a meno nazionalismo, a più solidarietà e meno esclusione, a più fraternità e a meno odio». La sinistra europea si trova oggi dinanzi alla responsabilità di guidare il difficile passaggio verso questo nuovo sistema di rapporti tra le nazioni. Nel mondo, certamente, ma innanzi tutto in Europa. L'impegno per i diritti umani non conosce confini e deve svilupparsi dalla Birmania al Ruanda, dalla Cina al Kurdistan. Ma non può non cominciare, dopo la lezione di Sarajevo, dalla decisione di considerare insopportabile la violazione sistematica e pianificata dei diritti umani nel cuore stesso d'Europa. La sola ragione fondamentale che ha giustificato il ricorso alla forza è stata la necessità di una «ingerenza umanitaria» in grado di bloccare la violenza sistematica verso il popolo del Kosovo. Un'azione criminale che datava da mesi e aveva già causato due¬ mila morti e quasi mezzo milione di profughi in fuga disordinata per boschi e montagne. Non c'erano altre vie percorribili nell'immediato, se si voleva reagire a tutto questo, al di fuori di un uso della forza, limitato e controllato, finalizzato ad obbligare la leadership serba ad una modifica radicale del proprio atteggiamento. Al contempo, abbiamo sempre sostenuto che ogni possibile soluzione politica andava perseguita e incoraggiata. E non a caso abbiamo offerto tutto il nostro sostegno ad ogni tentativo diplomatico: da Primakov alle iniziative del Vaticano, fino ad avanzare la richiesta di una riflessione e di una riflessione comune dei leader socialisti europei. Noi vogliamo che i profughi albanesi del Kosovo tornino nelle loro case. Vogliamo che vivano in condizioni di sicurezza e senza l'incubo di una nuova odiosa pulizia etnica. Voghamo che i diritti dei kosovari siano garantiti in un quadro di stabilità dell'intera regione balcanica. Questo è l'obiettivo da perseguire, questa è la «pace giusta» per la quale siamo impegnati. Con l'azione politica; che in certi casi può anche vedersi costretta a ricorrere alla forza, ma non deve mai abdicare al suo ruolo di direzione. E' del tutto evidente infatti che dall'esito di questa guerra deriveranno conseguenze di lungo periodo, a partire dall'affermarsi o meno di quella «società civile europea» - per usare la felice espressione di Giorgio Ruffolo - che dovrebbe allargare i confini attuali dell'Unione politica e monetaria. Né si può dubitare sul fatto che le sorti stesse dell'Europa in quanto soggetto politico capace di svolgere un ruolo attivo nell'epoca della globalizzazione, potranno trarre da questa vicenda nuova legittimazione o, viceversa, il più drastico ridimensionamento. In fondo è la Storia del secolo a consegnarci queste verità: dietro gli avvenimenti di questi giorni vivono trame di conflitti antichi, si intrecciano identità e interessi di popolazioni che hanno esercitato un'influenza decisiva sulle dialettica tra Oriente e Occidente, tra rehgioni diverse, tra differenti modelli di civiltà. Se si guarda ai problemi con quest'ottica appare in tutta evidenza come l'Europa non può essere protagonista di questa vicenda. Tacere sulla persecuzione serba del Kosovo e attendere che la strategia di Milosevic si affermasse in tutta la sua devastante lucidità avrebbe significato, tra le altre cose, seppellire qualunque seria riflessione sul futuro allargamento dell'Europa. Ma proprio per questo ora, nel cuore della crisi, è l'Europa la classe dirigente europea - che deve levare la propria voce e parlare un linguaggio comune se non vuole rinchiudere un grande progetto politico entro i confini provinciali di un'area di li- bero scarnino depurata delle ambizioni che ne hanno accompagnato l'ispirazione e lo sviluppo. Naturalmente non si tratta di un processo spontaneo. L'«ingerenza umanitaria» ha bisogno di una cornice giuridica meno precaria e di una progettualità politica più ardita e matura inseme. Ma per intanto, solo una forte legittimazione politica e di consenso intorno a questo intervento - a questa visione del conflitto che stiamo vivendo - sarà garanzia che l'Europa non deleghi ad altri il ruolo politico che le spetta. Anche per questo spetta a noi - e al governo italiano in primo luogo - il compito di giocare un ruolo dentro l'Alleanza. Nessuno è così miope da rimuovere questo elemento. E del resto è chiaro che la nostra adesione alle scelte e agli indirizzi della Nato non risponde solo agli obblighi che ci derivano dal fame parte, ma è anche condizione perché l'Italia svolga una funzione dentro i nuovi equilibri mondiali che si vanno definendo. Non c'è nulla di scandaloso in questo. Anzi, è la base di una visione politica dotata del respiro necessario a dominare gli eventi evitando di farsi dominare da essi. L'organizzazione dei soccorsi alle popolazioni martoriate dalla pulizia etnica, oltre ad essere un inderogabile dovere morale, è anche un investimento sul futuro, è la costruzione nel momento più drammatico di basi solide per un'amicizia e una cooperazione tra le due sponde dell'Adriatico, che rappresentano un tassello essenziale della nuova politica di sicurezza in Europa. Questa, dunque, è l'esatta portata dei problemi che abbiamo davanti. Siamo nel pieno di una sfida poUtica e strategica decisiva, che investe il futuro della civiltà europea e la stessa funzione che il nostro continente potrà assumere nello scenario intemazionale dei prossimi decenni. Siamo impegnati in una prova che può segnare, nel bene o nel male, l'avvenire di un'intera classe dirigente e, con essa, il futuro di quella sinistra democratica e dei valori che abbiamo scelto di costruire. E' in assoluto - vorrei dirlo senza alcuna retorica - la prova più diffide che la generazione oggi «al potere» in Italia e in Europa ha mai avuto davanti. Superarla con equilibrio, saggezza, moralità, vorrà dire porrele basi di una nuova stagione della nostra storia comune, Pubblichiamo di seguito un intervento dell'onorevole Walter Veltroni, segretario dei Democratici di sinistra, sulla crisi nei Balcani Il segretario dei Democratici di sinistra Walter Veltroni