«Eravamo signori, siamo servi» di Maria Corbi

«Eravamo signori, siamo servi» LA RABBIA DEGLI EMIGRATI: TORNEREMO A COMBATTERE «Eravamo signori, siamo servi» I kosovari di Roma: ecco il nostro esilio le storie Maria Corbi ROMA Mergita ha soltanto otto mesi, bellissima con due grandi occhi azzurri, il suo nome in albanese significa «nostalgia». Nostalgia del Kosovo che riempie, insieme alla disperazione, il cuore dei suoi genitori, scappati anni fa dalle persecuzioni serbe. Lui, Shemsi, è arrivato a Roma dieci anni fa, aveva solo 20 anni. Adesso è «sistemato», fa il giardiniere. H agire bada alle due figlie e prega per la famiglia rimasta in Kosovo e di cui non ha più notizie da settimane. Ha saputo che la madre è riuscita ad arrivare in Albania e che i serbi le hanno rubato tutto, anche la fede di nozze. La loro casa a Drenica, costruita in questi anni di risparmi per tornarci un giorno, è andata distrutta. «L'ultima volta abbiamo parlato con mia cognata al telefono una ventina di giorni fa. La linea era ancora attaccata perchè il fratello di mio marito ha comprato la casa da una serba e non ha mai cambiato l'intestazione delle bollette. Cosi hanno potuto mantenere il telefono». Perchè i serbi, spiega Shemsi, non vogliono far sapere cosa sta succedendo e hanno interrotto tutte le linee di comunicazione dei kosovari. «I miei fratelli non rispondono più al telefonino. Chissà cosa ne è stato di loro». «L'ultima volta che ci siamo sentiti, racconta ancora Shemsi, mi hanno detto che non erano tornati nella loro casa. Perchè da lontano avevano visto tutto il quartiere bruciato e solo la loro casa ancora intatta. Hanno subito capito che si trattava di una trappola. I serbi li aspettavano dentro per divertirsi. Fanno sempre così. Violentano le donne e uccidono gli uomini perchè vogliono far scomparire il nostro popolo. Non si fermano nemmeno davanti ai bambini. Ed è per questo che ho decisa che voglio altri due figli. Farò crescere altri kosovari». Nei volti di Shemsi e della moglie si legge la tristezza e l'angoscia per la loro terra devastata, per i loro ca¬ ri costretti alla fuga o, ellisse, morti per mano serba. Cresciuti in una patria dilaniata dai conflitti etnici, parlano di morte con freddezza. «Siamo abituati a tutto. Dal 1981 per noi kosovari è iniziato l'inferno, dal 1989 la vita è diventata impossibile. Sa che neasun kosovaro ha un impiego pidiblico? E che siamo costretti a mandare i nostri figli di nascosto a studiare in albanese perchè i serbi impongono la loro cultura e la loro lingua nonostante noi siamo il 95 per cento?». Come Shemsi e Hagire non sono molti i kosovari a Roma. Una piccola comunità si è stabilita a Leonessa, vicino Rieti. Mentre in molti si sono trasferiti al Nord dove è più facile trovare lavoro. Di solito fanno i muratori, i camerieri nei ristoranti, i giardinieri. E' difficile trovarli nelle case come domestici. «Prima di tutto questo eravamo signori. Non ci mancava nulla», spie¬ ga Milo. «Adesso per noi è difficile fare i servi». 1 kosovari più vicini all'Uck, l'esercito di liberazione del Kosovo, si ritrovano in un appartamento alla periferia Noni della capitale. Qui si organizzano per tornare a difendere la loro gente con le armi. Gli «intellettuali» hanno come punto di incontro, invece, un'agenzia di viaggi dove lavora un ex giornalista costretto dai serbi a lasciare il lavoro. Pochi «praticano» la religione alla moschea. Ali è da 4 anni a Roma e fa il lavapiatti. Vorrebbe tornare ma non sa decidersi. Qui ha trovato pace e rispetto: «Cose che non avevo in Kosovo». Ma la sua famiglia, la sua terra è là. Vuole difenderle. Della sua vita prima deU'«esilio» in Italia ricorda con amarezza l'odio che consuma e distrugge tutto. Anche i bambini. «Non potrò mai più avere amici serbi», dice. «Se questa guerra finirà, se un giorno la mia terra sarà libera non sani possibile convivere con chi ha massacrato la tua famiglia e i tuoi amici senza pietà». «I peggiori, dice, sono stati i vicini di casa. Armati e crudeli hanno aiutato i militari a farci fuori». Ysak Hoxa fa parte dell'associazione degli albanesi nel mondo. A Pristina lavorava in tribunale lino a che ai kosovari non è stato proibito di occupare posti pubblici. Ha saputo che la mamma è in salvo ma non ha più notizie del padre e dei due fratelli piccoli. I kosovari in Italia sentono il dovere di tornare a combattere. L'altro ieri in duecento, tutti giovani, hanno affollato la piazza di Montecitorio tannati» di bandiere dcll'Uck, rosse con l'aquila bicefala nera, e degli Usa. Il vicepresidente di «Quando la patria chiama», associazione kosovara-albancse, Zenel Suka, spiega che l'azione militare è l'unico modo per salvare il suo popolo. Kosovari in fuga dalla loro terra: immagini purtroppo frequenti in queste due settimane di guerra in Serbia

Persone citate: Hoxa, Zenel Suka