Melato, Fedra allucinata e straziante
Melato, Fedra allucinata e straziante Genova, cast convincente per Racine: ma i «giovani» hanno problemi con la metrica Melato, Fedra allucinata e straziante Bella prova nella sobria regia di Sciaccaluga M'asolino d'Amico GENOVA In «Fedra» Racine parla di greci ma pensa alla Corte del Re Sole, grandeur fuori e, sotto, intrighi, torbide passioni, calunnie. Nella sua versione i semidei sono in conflitto fra l'ideale e il terreno. Il falso annuncio della morte dell'assente re Teseo provoca una lotta per il trono oltre a spingere Fedra a rivelare a Ippolito il suo amore impossihile per lui, che le è figliastro. Inorridito, Ippolito la respinge (oltretutto, ama Arida) e, quando Teseo torna, Enone accusa il giovane di avere insidiato la sua padrona, per salvare Fedra che a questo punto si autodenuncerebbe. Allontanato dal padre, Ippolito è ucciso da un mostro mandato da Nettuno, amico di Teseo, prima che questi, ascoltata la confessione di Fedra, possa richiamarlo... Sobria e compatta, l'edizione diretta da Marco Sciaccaluga ha molti pregi a partire dalla traduzione di Giovanni Raboni in versi di più misure, qualche martelliano a riecheggiare i sublimi alessandrini, ma anche endecasillabi, settenari ecc., in un gioco sottile che, pur con qualche inevitabile dolcezza metastasiana («Lasciate che il mio ardire osi di sé far prova - e se ancora si trova - un mostro a voi sfuggito...»), non perde mai dignità. Ben servita da Luciano Virgilio, un Teseo nobile e dolente, da Ugo Maria Morosi, impeccabile nel fatidico «récit de Théramène», e dalla solida Paola Marinoni, denuncia anche, ahimè, il disagio della giovane generazione davanti alla metrica. Chiara Melli è una Arida immatura, e come Ippolito Sergio Romano rispolvera vezzi del suo Amleto nevrotico, allora diretto da un regista alloglotta che lo incoraggiò a buttarsi per terra ma non a coltivare la limpidezza della dizione. L'ambiente di Ezio Frigerio è stupendo, benché scomodo. E' una vasta sala vuota i cui marmi sono stati costruiti sopra fondamenta antichissime; Nettuno si fa sentire mugghiando dall'esterno e mandando un'ondata minacciosa di acqua vera a ogni finale d'atto. Da un oblò-ro¬ sone il Sole contempla indifferente i personaggi, che in questo spazio molto illuminato non trovano mai momenti di intimità. I costumi di Franca Squarriapino vanno dal neutro al deplorevole. Come le musiche, si sono timidamente ispirati all'India, ma in chiave di povertà: Arida e la sua compagna coi loro sottanini e calzoncini disadorni sembrano profughe del Terzo Mondo. Le eroine di Racine sono pure e moralmente inflessibib, ovvero travolte da pulsioni che le portano oltre la morale. Fedra, unica, combina i due tratti, perché è trascinata, ma si odia per questo. Già prima dell'inizio ha deciso di lasciarsi morire pur di non cedere a Venere che l'ha infettata; penso a un altro capolavoro barocco, una tela di Guido Reni, dove la moglie di Putifarre che insidia il casto Giuseppe è vista allo stesso modo, una donna livida, febbricitante, allucinata. Mariangela Melato comunica questo con una raciniana simbiosi di nitore di eloquio e rovello viscerale. Esile e vibrante, al momento della verità strappa la fallica daga a Ippolito e si denuda un seno, incitando lui a penetrarla con quella: è un gesto straziante, sexy e casto, aggressivo e disperato, e riesce a estrarre al partner un attimo di sgomento autentico. 100' persino troppo veloci all'inizio, ottima attenzione, applausi. Fino al 25 al Teatro della Corte. Mariangela Melato
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