«Condannate Andreotti a quindici anni» di Francesco La Licata

«Condannate Andreotti a quindici anni» Palermo, la richiesta dell'accusa al processo per mafia: «Ha accresciuto il potere di Cosa Nostra» «Condannate Andreotti a quindici anni» Chiesta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici Uno dei difensori: non c'è un solo fatto provato Francesco La Licata inviato a PALERMO Il presidente Aadrcotti è colpevole del reato di associazione mafiosa. Il presidente Andreotti ha avuto contatti diretti con alcuni capi dell'organizzazione criminale denominata Cosa nostra. In almeno tre occasioni ha incontrato esponenti della «commissione provinciale», boss del calibro di Stefano Bontade e Salvatore Riina. 1 suoi agganci, quelli della sua corrente, capitanata in Sicilia da Salvo Lima erano tutt'altro che «occasionali». Per questo il presidente Andreotti deve essere considerato più un «partecipe» all'associazione per delinquere che un «concorrente esterno». Il presidente Andreotti, quindi, ha accresciuto con la sua partecipazione al sodalizio mafioso e con il prestigio che derivava dalle sue cariche istituzionali - il potere di Cosa nostra. Il presidente Andreotti ha trasformato la sua corrente in una «struttura permanente» al servizio delle necessità di Cosa nostra. Il presidente Andreotti, perciò, deve essere condannato al massimo della pena. La richiesta dei pubblici ministeri è pesante, ma del tutto coerente con quello che sono stati l'atteggiamento e le convinzioni dell'ufficio dell'accusa: quindici anni e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Si prevede già una discussione, lunga e articolata per stabilire se ciò vuol dire anche revoca della carica di senatore a vita. Si è conclusa cosi, con il colpo di scena ampiamente atteso, la requisitoria dei sostituti procuratori Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, «accompagnati» in aula, ieri mattina, da Giancarlo Caselli. Il procuratore capo, però, si è allontanato poco prima che avesse inizio l'udienza. Una presenza, quella di Caselli, che è apparsa come una sorta di dimostrazione di affiatamento e coesione di un ufficio che non si scompone adesso che il capo sta per andare via. Le richieste, insomma, dei pubblici ministeri non devono essere interpretate come «iniziativa privata» dei magistrati dell'aula ma come il risultato di un lavoro collettivo. E per sottolineare ulteriormente questo aspetto, Caselli ha voluto ringraziare pubblicamente, davanti ai giornalisti, tutti quelli che hanno contribuito all'inchiesta e che hanno compiuto «tutte le verifiche necessarie». Perché non un solo particolare è stato trascurato ed ogni accertamento è stato eseguito con l'attenzione che la vicenda merita. Una risposta indiretta, questa, alle obiezioni di Andreotti e al commento del suo legale, Gioacchino Sbacchi, che, subito dopo la requisitoria, aveva dichiarato: «Nella ricostruzione dell'accusa non c'è un solo fatto provato». Ieri mattina non ora presente il senatore a vita. Una piccola deroga, la sua, ad un comportamento processuale irreprensibile. Una deroga che tradisce, forse, l'aspettativa mancata di un «ripensamento» dei suoi accusatori. Chissà quale sarebbe stata la reazione di Andreotti nell'ascoltare l'impietosa analisi di Lo Forte e Scarpinato, le parole che lo descrivevano come uomo e politico tanto cinico da privilegiare il rapporto perverso con la mafia ai suoi stessi compagni di partito che, invece, cercavano di affrancarsi dallo strapotere dei boss. Particolarmente pesante il riferimento alla morte di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione de assassinato nel gennaio del 1980, e alla «sua disperata ricerca di sostegni poco prima di essere ucciso nella lucida consapevolezza di non potere reggere la sfida con quel potere politico-mafioso a cui questo dibattimento ha dato un volto: Andreotti, Lima, i cugini Salvo, Stefano Bontade ed altri vertici di Cosa nostra, personaggi tutti che ben due volte si riunirono in Sicilia prima e dopo l'omicidio per discutere il problema Mattarclla. Il problema Mattarella, il problema cioè di una classe politica che aveva osato alzare la testa e lottare per liberarsi dal gioco mafioso, fu risolto con il solito metodo mafioso: colpirne uno per dare una lezione a tutti». Una strategia mafiosa resa possibile anche da quella «lezione». Ha detto ieri Scarpinato: «I vertici di Cosa nostra avevano avuto la riprova che si poteva uccidere impunemente anche il presidente della Regione siciliana, perché lo Stato ai loro occhi non era impersonante da Mattarclla, uomo solo, ma dal sette volte presidente del Consiglio e ministro a tempo pieno Giulio Andreotti con il quale Stefano Bontade e gli altri parlavano da pari a pari, ricordandogli il dovere di rispettare sempre e comunque i patti». La conclusione di Scarpinate è stata davvero pesante: «Quanta democrazia, quanto senso dello Stato, quante speranze e quanto futuro furono uccisi insieme a Mattarclla la mattina del 6 gennaio 1980? E quanta democrazia, senso dello Stato, quante speranze furono uccisi il 3 settembre 1982 quando fu la volta del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il quale pochi mesi prima di morire aveva osato dire ad Andreotti che non avrebbe avuto riguardo per i suoi grandi elettori mafiosi e poi avrebbe dovuto attraversare la stessa via Crucis di Mattarclla scontrandosi con gli uomini della corrente andreottiana, da lui definita la famiglia politica più inquinata dell'isola?». Il processo riprenderà il 18 maggio con l'arringa dei difensori, il prof. Franco Coppi e l'aw. Gioacchino Sbacchi. La sentenza in estate. -7-"—"—'

Luoghi citati: Lima, Mattarclla, Palermo, Sicilia