«Ero avvocato a Pristina in 36 ore ho perso tutto»

«Ero avvocato a Pristina in 36 ore ho perso tutto» «Ero avvocato a Pristina in 36 ore ho perso tutto» Christophe Chàtelot IGLIAIA di rifugiati albanesi sono bloccati, alcuni da quattro giorni, da un cordone di poliziotti macedoni al valico di Jazhincè. Accovacciato dietro una macchina, prostrato, Besnik ripiomba nel suo incubo: i suoi anziani gonitori sono in mozzo a questa folla cho lui non può avvicinare. «Roba da pazzi. I serbi ci cacciano e i macedoni non ci lasciano entrare. Mio padre soffre di asma, non resisterà». Besnik è riuscito a passare la frontiera a Blace, in un camion coperto da un telono, tenendosi alle cordo per non cadere. «Cho cosa abbiamo fatto per essere trattati peggio delle bestie?». Besnik non riesce a crederci. I sette anni passati in Gran Bretagna, a partire dal '90, l'avevano convinto di non essere tanto diverso dagli altri ouropei della sua generazione. Non avova ancora perso la speranza di poter esercitare il suo mestiere di avvocato. La sua via crucis e iniziata giovedì scorso. Prima, lui e suo fratello avevano trovato riparo presso una zia, sulla collina cho domina Pristina. Con il passaparola - «Stavamo tutto il giorno appesi al telefono» - hanno presto saputo che i serbi aspettavano una cosa sola: che so no andassero. La famiglia di Besnik è partita mercoledì, lui invece aveva deciso di aspettare ancora, sperando in un miracolo cho impedisse ai serbi di svuotare Pristina. Il suo sogno durerà soltanto una notte, passata nell'angoscia del minimo rumore. «Al mattino, con un amico, abbiamo deciso eli andarcene scavalcando la collina. Vedevamo i poliziotti avvicinarsi, erano a 150 metri da noi. Quando ci hanno visti caricare la macchina, sono venuti verso di noi. "Uscite, lasciate le chiavi noi cruscotto e raggiungete gli altri", ci hanno urlato. Mi hanno strappato il portafoglio por prendermi i soldi, 350 marchi». I vicini stavano già uscendo dalle loro case. Attraverso un altoparlante i serbi ordinavano di prendere la direzione della stazione. Besnik entrò in questo fiume umano che scendeva la collina in un silenzio di morte. «I poliziotti ci dicevano di buttar via i documenti, che non ne avremmo più avuto bisogno perché non saremmo mai più tornati. Camminavamo .sulle carte d'indentità e le patenti. Era surreale. Dappertutto c'erano poliziotti serbi che, senza particolare violenza, guidavano il nostro gregge. Mi chièdevo se non stessi andando al mattatoio». I binari dell'antica stazione di Pristina erano neri di folla, dalla quale provenivano pianti di bambini, urla di donne, gemiti. «La gente soffocava. Abbiamo aspettato ore, poi sono arrivati i primi camion. Ci si batteva per poter salire. Ne ho lasciati partire alcuni, pei ho sgomitato e ce l'ho fatta. Abbiamo viaggiato senza mai fermarci lino alla frontiera. Lì ci hanno ordinato di scendere». Era un'alba grigia e piovigginosa. Besnik risalì la fila di cinque, sei chilometri, scrutando invano dentro ogni macchina alla ricerca dei suoi genitori. «Al posto di frontiera, i serbi ci hanno lasciati passare, ben felici di vederci partire. A bloccarci sono stati i macedoni. Quando ho visto la Croce Rossa che ci distribuiva pane e latte, ho capito che saremmo rimasti a lungo laggiù. Così ho deciso di rischiare». Con la scusa di andare a cercaro acqua, svicola dai poliziotti andandosi a confondere tra le migliaia di rifugiati arrivati in treno e ammassati in un campo più io basso rispetto al posto di dogana, lungo i binari. Passando tra le tende di fortuna ed eludendo i soldati macedoni, riesce a riguadagnare la strada, dall'altra parte della frontiera. E tra la folla degli albanesi di Macedonia, spontaneamente venuti in soccorso dei «fratelli» del Kosovo, ritrova un lontano cugino d'acquisto. Si dirigono vorso Skopje, oltrepassando senza complicazioni i blocchi di polizia. Come a molti albanesi di Pristina, questa città di commerci non gli è del tutto sconosciuta: ci veniva spesso, ai tempi di Tito. Un taxista albanese lo deposita in un albergo malfamato, a misura dei 250 marchi che ha nascosto nelle scarpe. Nel giro di 36 ore Besnik ora diventato un profugo. I suoi beni si riducono a quello che ha sulle spalle, più un sacchetto di plastica. Ma, a ditterenza delle nugnaia di persone che marciscono alle porte della Macedonia, lui se l'è cavata piuttosto bene. «L'essenziale è questo! » : e dal fondo di una tasca interna del giubbotto estrae un passaporto jugoslavo. «Non me l'hanno strappato! E' la prova che sono jugoslavo. Potrò tornare a casa o andare all'estero». Prima, però, deve ritrovare la sua famiglia di cui non ha più notizie. La sola pista, sabato mattina, è un nome scarabocchiato da sua madre su un pezzo di carta prima di partire. E' quello di un'anziana cugina, che vive a Gostivar, B0 chilometri da Skopje. La città conta 40 mila abitanti. Chiedendo qua e là, Besnik arriva al figlio della cugina, poi alla cugina. Lì apprende che suo fratello e la famiglia della zia sono stati accolti da una famiglia albanese appena scesi da uno dei camion. I suoi genitori invece sono rimasti bloccati alla frontiera di Jazhnicè, troppo anziani per risalire a piedi la coda ed entrare dicretamente in Macedonia aggirando il posto di frontiera. Passeggiando con le mani in tasca por le strade deserte del bazar di Skopjo, Besnik lotta contro lo sconforto. Dice che contatterà una Ong americana, per la quale ha lavorato a Pristina. «Mi faranno ottenere più facilmente i documenti di profugo». E poi? Pensa di andare per un po' in Turchia, o altrove. Una cosa ò chiara nella sua testa: presto o tardi, tornerà a vivere nel Kosovo. «Avremo il nostro Stato, ma saremo tornati indietro di un secolo». Le Monde-La Stampa Ha camminato due giorni con la sua famiglia, questo bambino appena arrivato al villaggio montenegrino di Jablanica da Suslce, a 30 km da Pec La vita continua a Belgrado anche sotto le bombe. Qui i cittadini sono in coda davanti al teatro per comprare i biglietti dello spettacolo serale. Besnik, un avvocato di 35 anni che viveva a Pristina ed è riuscito fortunosamente a entrate In Macedonia, racconta come in 36 ore abbia perso tutto. Braccia tese a prendere due filoni di pane da un camion che porta aiuti ai profughi alla frontiera di Morini. Prima dell'arrivo dei soccorsi Internazionali gli abitanti dell'Albania si sono prodigati verso I «fratelli» del Kosovo, aprendo le loro case e dividendo il loro cibo