LE LACRIME DELL'UOMO DI GHIACCIO di Lorenzo Mondo
LE LACRIME DELL'UOMO DI GHIACCIO LE LACRIME DELL'UOMO DI GHIACCIO Lorenzo Mondo P ER me, per la mia giovinezza Giulio Einaudi è stato a lungo Giulio Einaudi Editore, cioè la sigla della sua impresa, e nulla più. Non era d'accordo. Sul suo catalogo poco, avevo fatto anch'io la mia trafila, gli Americani come usavano allora, ma anche la «Recherche» proustiana, e più in generale i classici stranieri raccolti sotto la bella copertina «Papier de sucre», i poeti onorati con nivea veste. Erano letture prevalentemente letterarie, ma senza escludere altri assaggi come Gramsci e Jemclo, impacciandomi un poco di marxismo: preso tuttavia per mano, io che appartenevo ad altra estrazione, dal rassicurante Gustavo A Wetter, il gesuita di cui Einaudi aveva pubblicato «Il materialismo dialettico sovietico». La mia famigliarità con il mitico edificio bianco e verde di via Biancamano I, comincio dal magazzino, al quale mi aveva introdotto un amico. Salutavo il custode Gerlin, un ex partigiano privo di un braccio, e scendevo nell'interrato a comprare blocchi di libri con qualche difetto e dunque scontatissinu. A farmi salire fu il Pavese della mia laurea e l'impresa dell'Epistolario. Calvino, supervisore e complice, mi presentò a Giulio Einaudi che, notoriamente, non perdeva tempo in convenevoli: mi squadrò dall'alto in basso, pronunciò poche parole inespressive e, con l'aria di rimettersi a Calvino, mi fece assegnare una stanza e un tavolo. In lunghi pomeriggi estivi, lo vedevo passare, con le braccia incrociate dietro la schiena per il corridoio ingombro, sulle pareti e per terra, di arte d'avanguardia dai toni biaccosi e cementizi. Passava e chiamava con voce stridula e stizzita i nomi dei suoi: Ponchiroli, Fossati, Da vico, Strada... Si affacciava alla mia porta e senza fermarsi, come una folata, chiedeva a che punto fosse il lavoro. Mi portai dietro, come una medaglia, il convinto apprezzamento di Giulio durante la presentazione delle prime, vergini copie dell'epistolario pavesiano. Da qualche anno il filo del rapporto fu tenuto dalle bottiglie di Dolcetto e Barolo di cui era prodigo al cadere del Natale. Lo rividi quando uscì, per mia cura, «Il partigiano Johnnp di Fenoglio, e furono parole di cautelosa stima, un prendermi un'altra volta le misure. Non mi conosceva a fondo, ma non poteva ignorare che la sorte mi aveva fatto varcare le soglie della casa editrice in compagnia di due dei suoi più prestigiosi autori. Un rapporto più umano e disteso si instaurò dopo una intervista che mi concesse per una rete radiofonica nazionale. Fu, al solito, preciso e pungente nei ricordi della sua avventura editoriale, la commozione temperata sempre dall'ironia. Vidi cedere l'uomo di ghiaccio, quando lo colpii involontariamente a tradimento con una domanda sulla madre, su quella figura dimessa che gli italiani avevano imparato a cono scere nell'ombra del Presidente della Repubblica. Disse che era stata la figura più importante della sua vita, e vidi con imbarazzo che i suoi occhi si erano riempiti di lacrime, Le occasioni di dialogo divennero più frequenti. Si mostrava coinvolto nel lavoro, aveva sommamente cara la sua collana di scrittori tradotti da scrittori. Ma più sensibile si mostrava ormai agii incontri di gente nuova ed estranea, al colore di una città e di una stagione. Sempre pronto a trasformare l'irritazione in broncio, il broncio in motteg- Sio. il motteggio in un turbamento ove non sapevi se prevalesse la senilità o la saggezza.
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