LA GUERRA NECESSARIA DI FINE SECOLO di Barbara Spinelli

LA GUERRA NECESSARIA DI FINE SECOLO DALLA PRIMA PAGINA LA GUERRA NECESSARIA DI FINE SECOLO Barbara Spinelli pronunciato da Emma Bonino di deportati. E' perché esiste questa categoria di perseguitati che l'Alleanza potrebbe decidere di alzare il tiro, e chiedere all'Italia di alzarlo a sua volta, inviando 6000 soldati per organizzare l'accoglienza dei deportati in Albania. Ma di fronte a questa nuda realtà le intelligenze tendono appunto ad ammutolire, come sommerse da apocalittica pena. E' apparso paralizzato perfino il Papa, nei giorni scorsi e nella notte di venerdì alla Via Crucis. Lui che aveva gridato forte la sua indignazione etica durante la guerra in Bosnia, chiedendo che la «mano dell'aggressore» venisse «disarmata», non fa per il momento distinzioni nette fra i diritti dei persecutori serbi alla terra del Kosovo e i patimenti degli uccisi o deportati albanesi. Lui sa quel che ha di fronte, conosce la colpa primaria, e nell'acme della Via Crucis rammenta ai propri fedeli le ultime parole di calmo distacco attribuite dall'evangelista Luca a Gesù crocefisso: «Pater, in manus tuas commendo spiritum meum - Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». Così l'Europa e l'Occidente sono invitati a congedarsi dal secondo millennio, e a chiudere il ventesimo secolo, e in definitiva a uscire dalla Storia: con queste parole di Ultima Rassegnazione, che il Pontefice ripete più volte, che raccomanda a ciascuno di noi, che non considera una chiusura bensì una apertura quasi apocalittica a nuovi tempi. Non era il suo grido quando Sarajevo soffriva, e l'Occidente era ammaliato dalla bruta forza di Milosevic. Si sentiva allora l'altro grido di Cristo crocefisso, ultimo anch'esso e il più struggente, umano, che Matteo e Marco citano in aramaico: «Eloì, Eloì, lamina sabactani? - Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Non è chiaro quel che Gesù abbia detto davvero, sull'ordigno di morte. Ma certo il secondo millennio sembra concludersi con il suo grido più angosciato, misterioso, e non solo con le sue parole di cupa, trasfigurante rassegnazione. Di certo il ventesimo secolo si conclude con genocidi e deportazioni che l'Europa non aveva più visto in casa propria dopo il '47: dunque finisce in quell'urlo che interroga, che si rivolta, perpetuando nei secoli dei secoli non soltanto la salvezza, ma anche lo scandalo della Croce. Perché appunto: la virtù della resistenza al male o della pace f;iusta non è per i tempi apocaittici, oltremondani. E' gettata nel tempo, deve tener conto di quel che effettivamente accade sulla superficie terrestre, così come è gettata nel tempo e nelle sue metamorfosi quest'operazione della Nato che è cominciata il 24 marzo, che non ha raggiunto i risultati sperati l'indebolimento di Milosevic, l'abolizione della furia genocidaria serba - e che sarà chiamata prima o poi a mutare radicalmente natura. E' su questa furia genocidaria che il Santo Padre ha deciso almeno finora di ammutolire, e dunque di ammettere la propria impotenza infinita. Per salvare quel mezzo milione e più di deportati - un terzo dell'intera popolazione albanese in Kosovo - urge cambiare rotta, e prepararsi a colpire non soltanto dall'alto di cieli incolumi ma da terra. Urge adattare gli obbiettivi bellici allo scopo finale della guerra, o come avrebbe detto Clausewitz: è necessario che gli obiettivi (i Ziele dell'Occidente) servano lo scopo, lo Zweck dell'operazione. Urge comunque una svolta mentale, politica, bellica, se si vuole scongiurare il disastro più probabile: la sconfitta della Nato, la vittoria di Milosevic, e la Soluzione Finale della questione albanese. E' il passo che il Papa non osa compiere mentalmente, per motivi che i vaticanisti non si stancano di sottolineare: troppo profondo sarebbe il suo interesse a una riconciliazione fra Europa cattolica e ortodossa soprattutto in Serbia, troppo grande la sua diffidenza per la solitudine «superba» della potenza americana, troppo intensa la sua speranza in un negoziato patrocinato magari in simultanea da Mosca e Vaticano. Sono inquietudini e preoccupazioni che si potrebbero capire bene, se il Santo Padre fosse un Eolitico come altri. Ma la quatà della sua presenza è altra, la sua autorità non è diplomatica ma nell'essenza morale. E forse Giovanni Paolo II non l'avrebbe dimenticato, se i pretoriani attorno a lui non fossero così potenti. Lui per quanto lo riguarda schiva i testi troppo diplomatici. Fugge nel verbo apocalittico, che sembrerebbe distaccato se non fosse impregnato di tanta pena. Non a caso altri esponenti della Chiesa si richiamano al suo grido di sdegno sulla Bosnia, e tacciono le ultime cogitazioni diplomatiche della Curia. E' il caso di Monsignore Jacques Delaporte, arcivescovo di Cambrai e presidente della commissione Giustizia e Pace dell'episcopato francese. In un lucido articolo su Le Monde, Delaporte denuncia il colpevole ritardo con cui l'Occidente ha scoperto l'ingiustizia in Kosovo e la solitaria battaglia pacifica di Ibrahim Rugova, ma giudica giusta la guerra cui la Nato è stata infine costretta: «Nel caso presente, la scelta era una sola: fra un'inazione giuridicamente corretta (dal punto di vista dell'Onu, ndr) e un'azione eticamente necessaria». E' eticamente necessario intervenire militarmente in Kosovo, per evitare il genocidio che i miliziani serbi hanno iniziato fin dai negoziati di Rambouillet, prima e non dopo i bombardamenti Nato. E' eticamente necessario passare a una guerra condotta sul terreno, visto che l'aviazione è insufficiente a frenare un dittatore come Milosevic. E' infine necessario che l'Europa crei in questa regione un proprio protettorato: «Perché il dramma si sta svolgendo in uno spazio che è nostro, prima ancora che americano». Perché occorre restituire ai deportati terre e averi. Perché occorre aiutarli a organizzare future elezioni, a dotarsi di un esercito e di una polizia, considerato lo sbaraglio dell'Armata di liberazione del Kosovo (Uck). Naturalmente questa non è la situazione ideale. Ideale sarebbe stato sostenere in tempo Rugova, presidente ufficioso dei kosovari, che auspicava uno statuto di autonomia e non l'indipendenza. Ideale sarebbe stata l'intesa di Rambouillet, che prevedeva un intervallo autonomo e rinviava l'indipendenza a tempi più lontani. Ma la storia appunto passa lasciando tracce, gli eventi non hanno luogo in spazi extratemporali, e la nuova realtà di fronte alla quale ci ha messi Milosevic è quell'immagine di deportazione in massa, con donne e madri e figli strappati agli sposi ai figli e ai padri, per esser trasformati in cose e gettati in treni merci diretti verso le fragili nazioni dell'Albania, della Macedonia, del Montenegro. Perfino coloro che avversarono uno Stato indipendente kosovaro, devono ora arrendersi ai fatti e prender atto che altra via non c'è, se non quella del distacco più rapido possibile tra serbi persecutori e albanesi deportati o massacrati. E' la conclusione cui giungono in questi giorni studiosi del totalitarismo come Timothy Garton Ash o André Glucksmann; esperti militari come Pierre Hassner e Alain Joxe; oppure vescovi solitari come Delaporte. Ha cambiato opinione anche Henry Kissinger, che inizialmente osteggiava una guerra terrestre e poi ha spinto Clinton ad approvarla, pur di non far perdere alla Nato questa guerra essenziale di fine secolo. Ben venga dunque la Conferenza Balcanica concepita da Romano Prodi, purché serva a staccare i kosovari dall'abbraccio mortifero dei serbi. Per riconciliarsi son necessari a volte i muri, scrive Garton Ash: «La stessa Europa ha avuto bisogno di una suddivisione inequivocabile in Stati, per potersi poi ritrovare dentro l'Unione Europea». Naturalmente la pace è sempre preferibile alla guerra. Lo pensano non solo i pacifisti co munisti, cattolici, o neofascisti alla Bossi. Lo pensano in prima linea i deportati kosovari, che tanto sperano in un intervento terrestre occidentale che li aiuti a tornare negli alloggi rubati, occupati o incendiati. Naturai mente è importante capire le ragioni dell'avversario, o degli ortodossi integralisti serbi che sognano un «Kosovo metafisico, puro biologicamente e nello spirito». Ma Simone Weil ha ragione a ricordare le parole di un persiano a Erodoto, davanti a Platea: «Il più odioso dei dolori umani è capire molto, e non potere nulla». Il più odioso dei dolori d'Europa sarebbe perdere questa sua prima grande occasione del secolo, per dire i prò pri valori e per pagare il prezzo necessario all'imposizione di una pace giusta, non di una pace dei cimiteri. Fin dai tempi dell'Iliade, il più odioso dei dolori umani è rincorrere con vane preghiere chi assolutamente non deflette dal male: «Le Preghiere infatti sono figlie del grandissimo Zeus: zoppe, rugose, con gli occhi storti, e si affrettano a tener dietro alla Colpa. La Colpa è robusta, e veloce, e cosi le precede tutte di molto, e primo di loro percorre tutta la terra».