VIA CRUCIS DEL PAPA E DEL POETA di Lorenzo Mondo
VIA CRUCIS DEL PAPA E DEL POETA VIA CRUCIS DEL PAPA E DEL POETA Lorenzo Mondo D turbato dalcommentare è a è n e e i , i a APPR1MA l'invito a le stazioni della Via Crucis, poi affascinato e coinvolto, Mario Luzi ha confidato agli amici: «Questo è il mio vero Nobel» (quasi a dirsi ampiamente risarcito dalle ripetute delusioni di Stoccolma). Come si addice a un poeta della sua statura, pur rispettoso dell'occasione pubblica e di una fede condivisa, ha calato nel rito che si svolgeva al Colosseo il timbro speciale della sua voce: nei modi di una sacra rappresentazione in cui Cristo, avviato al Calvario, interroga il Padre che, nell'ora dell'estrema solitudine, rispondo con il silenzio. Affiorava nel monologo lo smarrimento e l'angoscia di chi, dall'eternità, si sente precipitato nel tempo, in una storia assegnata agli uomini e al loro potere di incrementarla, per il bene e per il male. Si sentiva la paura della morte, l'ingresso in un tempo sottratto alla presenza i di Dio («dove tu non sei»), sen- I za governo o affidato a forze I oscure. La morte e il male che \ costituiscono il retaggio della I «genia greve di Adamo». 1 Perché incarnarsi nella specie 1 umana e non in quelle più do- 1 cili degli uccelli, dei pesci, del- 1 le gazzelle? Così sfuggenti e ambigui, gli uomini, che odiano in Cristo l'essenza divina e, insieme, la sua umiltà e fragilità, cosi abbandonatamente umane. Teme di non poterli più amare («Fa che questo non accada»), di essere destinato a una immane sconfitta. Ma, sollevato orinai sulla croce, esprime un inno alla vita, il rimpianto di doverla lasciare: «Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti...». Non so se Luzi ha fatto in tempo, nella stesura del testo, a lasciarsi persuadere dalle notizie sconvolgenti e mortificanti che arrivavano dal Kosovo. Bastava del resto il suo intuito di poeta a sfaccettare fino al nostro presente l'esemplarità di quell'evento, l'assolutezza di una pena e di un giudizio. Non so, anche, se Giovanni Paolo II abbia preso visione delle sue parole. Certo le ha assunte e, per cosi dire, commentate in modo scultoreo, con la sua persona. Il capo piegato verso terra e lo sguardo infossato, il passo incerto e sbilenco, il bastone chiamato a sorreggerlo, mentre, all'inizio e alla fine della commemorazione, non aveva esitato a portare, quasi aggrappandovisi, la croce processionale. Era l'immagine vivente di una accasciarne amarezza, forse di una sfiducia nell'uomo, di una preagonica sfinitezza. Un atteggiamento in sintonia con lo spirito della Via Crucis, fino alla breve allocuzione conclusiva. Dove, senza far cenno alla guerra in corso, alla tregua pasquale negata, si è affidato al Padre: «Alle tue mani confido il mio spirito». Ma con il capo eretto, la voce vibrante e insolitamente spiccata e chiara, quasi di risorto. Di un uomo che non si rassegna all'imperversante «cultura di morte», nonostante la materiale impotenza e la stessa inadeguatezza dei pratici suggerimenti (quando una guerra è giusta? Fino a che punto bisogna subire il male?) E'I'inermità della fede (e della poesia), l'assolutezza che non sa venire a patti. Ma non c'è da dubitare, conoscendolo, che contro ogni disperazione, continuerà a sperare e operare, a farsi sentire. Lo attendiamo all'Angelus di Pasqua, al suo messaggio «Urbi et Orbi». Cada dove vuole, è un seme che non andrà perduto.
Persone citate: Giovanni Paolo Ii, Luzi, Mario Luzi
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