Tra i disperati nella terra di nessuno

Tra i disperati nella terra di nessuno Tra i disperati nella terra di nessuno Stretti nella morsa tra le guardie serbe e macedoni reportage Giuseppa Zaccaria inviato a SK0PJE PER capire cos'è il «contagio balcanico» oggi basta affidarsi all'odore. Cominci a percepirlo a diversi chilometri dalla frontiera prima come un vago, sgradevole sentore che raggiunge qualche angolo del tuo istinto e gli sta dicendo «va' via», poi man mano che ti avvicini il lezzo copre le colline come l'usta di una mandria sterminata. Eccola. Un'ultima curva in salita, e sotto di te compare il brulichio di un'agonizzante mandria umana. Saranno 30, 40 mila, forse di più i rigurgiti del treno che continua a fare la spola fra Pristina e la frontiera. Sospinti fuori dai serbi, bloccati dai macedoni, i contadini del Kosovo ricoprono la valle e il torrente che l'attraversa, invadono la linea scura della ferrovia, si schiacciano uno sull'altro, vengono respinti da compagni inferociti fin sui crinali delle colline, affogano in un mare di escrementi. Mai visto niente di simile. E' un quadro di Jeronimus Bosch moltiplicato migliaia di volte, un «Trionfo della Morte» rappresentato come la più vivida delle immaginazioni non avrebbe potuto. Mancano i diavoli che coi loro forconi sospingono i dannati verso le fiamme dell'Inferno, o forse qui i dèmoni sono quei poliziotti - serbi da una parte, macedoni dall'altra che ogni tanto sparano in aria per impedire al branco di sconfinare. C'è chi muore, chi partorisce, chi si trasforma in una bestia. Non esistono aiuti organizzati, quel potentissimo Occidente che conduce dall'alto la sua guerra non è in grado di assicurare un minimo di assistenza alle proprie vittime indirette. Qualche auto di gruppi umanitari, qualche autobotte. Anche i diplomatici che si sono spinti fin qui restano sconvolti. L'immagine di un camion da cui qualcuno lancia forme di pane mentre migliaia di braccia si protendono, uomini e donne si calpestano per l'essenziale, è di quelle che restano impresse per sempre. Fra poco un altro treno da Pristina scaricherà in questa valle altri rifugiati, ed altri europei sprofonderanno dopo appena dieci giorni di bombardamento tecnologico nella condizione di «pariah» indiani. Basta, però. Se all'interno di un simile dramma c'è spazio per una considerazione personale, il senso di commozione e carità che prende qualsiasi essere umano qui deve raffredarsi, bloccarsi. In dieci anni di guerre balcaniche ho visto troppe volte le medesime scene per non essere convinto che a questi sventurati tocchi anzitutto il ruolo degli ostaggi, di comparse inconsapevoli usate ora per ricattare l'avversario ora per impietosire il possibile alleato. Non è una novità per i Balcani, da almeno sette secoli questa regione è flagellata da flussi migratori che ogni trent'anni seguono o tentano di precedere le guerre. Quel che sta diventando assolutamente nuovo, ciò che la vicenda del Kosovo scatena per la prima volta nei tempi moderni consiste nelle dimensioni e nella definitività dell'esodo. Oggi in Macedonia ci sono 800 mila profughi, almeno altri 100 mila premono alle frontiere e probabilmente nessuno di essi pensa di tornare mai indietro. L'ultimo movimento di masse paragonabili a questo, l'ultima fuga di popolo o trasferimento di nazione avvenne a metà del Settecento, con le «Migrazioni» dei serbi di Krajna, della Vojvodina (e in misura minore da Kosovo e Montenegro) verso l'Ungheria e la Russia. Milos Crnjanski le descrisse in modo impareggiabile nei due volumi che portano il medesimo titolo. La fine del secondo millennio provoca qualcosa di simile. Allora i serbi non fuggivano tanto dai Turchi che erano abituati a combattere, quanto dal «tradimento» dell'Austria e dei Paesi cristiani, che dopo averli usati come guerrieri li abbandonavano al proprio destino. Oggi gli albanesi del Kosovo sfuggono non solo ai serbi ma a quelle potenze che avevano garantito loro protezione e oggi consentono, anzi provocano l'esodo. Nella contingenza storica il fatto potrà anche avere un sapore beffardo. Eppure alcuni fra i maggiori esperti in campo di migrazioni e carovane che si incrociano lungo i sentieri di Europa abitano in Serbia. Luogo in cui, per inciso, la presenza di profughi è la più alta che oggi si registri in Europa: più di 700 mila persone. A Belgrado c'è un giornale dedicato interamente ai problemi dei rifugiati, non solo serbi. Si chiama «Odgover», che significa «Risposta», ed è diretto da una rifugiata scappata nei '92 da Zagabria e tre anni più tardi da Topusko, nella Krajna. Si chiama Milka Ljubitic, e su di lei il nazionalismo di reazione che pervade la Jugoslavia sembra non avere influito. Qualche anno fa, Milka fu fra le prime ad avvertire non solo la catastrofe, la perdita di identità, di casa, di lavoro, di prospettive e di famiglia, ma soprattutto il «tradimento» della Madrepatria, concetto che nei Balcani si fa particolarmente profondo e si esprime con la parola «matica». Allora Belgrado non difese i serbi come oggi l'Occidente non difende i kosovari. Al telefono, su una linea gracchiarne, la giornalista adesso dice che per tutti i nuovi fuggitivi, per l'Europa e il mori- i do, il pericolo maggiore oggi è proprio quello di trovarsi in casa e di curare un popolo in preda a «choc». Un'altra psicologa di Belgrado, Gordana Nyalkovic, ha studiato per anni psicologia e prosettive dei rifugiati come un'infermiera che studiasse in Kenya le conseguenze della malaria. «Spesso occorrono anni per recuperare un "displaced" alla vita normale, la frattura più profonda avviene quando ti rendi conto che la vita non e più fra le tue mani. Molti reagiscono convincendosi che non lo sarà mai più, e si uccidono o sono pronti a qualsiasi azione». Ci piaccia o no, questa folle situazione sta innescando le premesse per una migrazione massiccia e «politica» di cui nessuno può immaginare le conseguenze. Un piccolo esempio: da qualche giorno, qui a Skopje, ricevo sul vecchio numero di telefonino le chiamate di un'interprete serbo di cui avevo perso le tracce. Viveva a Belgrado, due anni fa aveva partecipato in prima linea alle manifestazioni contro Milosevic. Quando l'onda della protesta si era spenta, era emigrata a New York. In quel momento per lei gli Usa rappresentavano l'altro approdo, il sogno realizzato, la terra della democrazia e dell'autorealizzazione. Adesso chiede disperatamente notizie della sua terra e ogni tanto dice: «Scusa, ma devo uscire per una dimostrazione contro i bombardamenti Nato». La terra promessa si tramuta in Paese nemico, e lo stesso accade per quelle 20-25 mila persone che avevano lasciato la Jugoslavia con la fine del sogno di una rivoluzione pacifica a Belgrado. Adesso migliaia, forse centinaia di migliaia di nuovi profughi sono pronti ad approdare in Paesi che fino a dieci giorni fa immaginavano come Iperborea, e oggi invece avvertono come traditori, o rivali. Qualche sequenza di questo dramma ci sta arrivando in casa: chissà se potrà mai provocare reazioni più meditate di un bombardamento a tappeto. Il potente Occidente non assicura assistenza alle vittime Nella calca e nella polvere c'è chi muore, chi partorisce chi perde il controllo dei nervi Da un camion si lancia del pane Migliaia di braccia si tendono uomini e donne si calpestano Una fila di poliziotti macedoni (in primo piano) contiene la folla di migliaia di profughi kosovari alla frontiera ifoto ansa-epa]

Persone citate: Milos Crnjanski, Milosevic, Turchi