LA COMPETIZIONE ? UN FALSO IDEOLOGICO

LA COMPETIZIONE ? UN FALSO IDEOLOGICO LA COMPETIZIONE ? UN FALSO IDEOLOGICO A scuola e sul lavoro molto meglio cooperare ELL'ANNO dell'era americana, tra assoluzioni a raffica di presidenti e aviatori e sempre nuovi, clamorosi record di Borsa a Wall Street, esce anacronisticamente un libro intitolato La fine della competizione. Anacronisticamente per due motivi: l'edizione originaria era stata pubblicata negli Stati Uniti nel 1986 e, trattandosi di un testo che fa molti riferimenti alla letteratura scientifica più recente, i tredici anni trascorsi pesano. Ma il secondo motivo è più grave: che cosa ce ne facciamo di un testo così all'indomani della trionfale riscoperta del mercato, della competitività a ogni costo, della mentalità vincente e dei suoi inevitabili successi? Forse però i due motivi si bilanciano; forse è proprio perché con tanto affanno ci siamo buttati (una volta di più) a imitare i vincitori di turno che un'occhiata a questo libro un po' datato può servirci ad acquisire una prospettiva più realistica, e magari (chissà) a tenerci alla l glarga da qualche eccesso. La fine della competizione non parla affatto della fine della competizione. Il titolo (molto competitivo!?) è un'invenzione del traduttore: l'originale si chiamava più semplicemente No Contest. L'autore, Alfie Kohn, che è definito in copertina «studioso di sociologia e di antropologia» ma scrive da giornalista citando esclusivamente studi altrui, ha intenti critici e dichiara di «lasciare ad altri il compito» di progettare un futuio alternativo. Il suo compito è soprattutto quello di sfatare i «quattro miti fondamentali» su cui è stata costruita (in America, ma la cosa ormai è di portata universale) la popolarità della competizione. Primo, si afferma che «la competizione sia un'ineludibile realtà della vita, appartenente alla natura umana». Facendo appello ad una strategia che risale almeno a Sesto Empirico, Kohn insiste che la tesi è contraddetta dalla presenza di numerosi individui e popoli non competitivi. Secondo, la competizione ci indurrebbe «a fare del nostro meglio»; «se non fossimo in competizione smetteremmo di essere produttivi». Il che non solo non è vero (la cooperazione in generale funziona meglio), ma va addirittura in senso opposto al vero: la competizione, cioè, rende meno produttivi. Concentrandosi sulla vittoria (ossia su un fattore di motivazione estrinseco) invece che (più direttamente) sul processo o sul risultato, bambini e adulti diventano meno creativi, più conformisti, più ansiosi e più insicuri. «Distruggiamo la passione per l'apprendimento nei bambini, che è assai spiccato in tenera età, incoraggiandoli e obbligandoli a lavorare per ricompense insignificanti e risibili». Ne deriva un mondo di cloni intercambiabili, «produttivi» solo nel somigliarsi l'un l'altro. Terzo, la competizione fornirebbe «il miglior modo, se non il solo, per divertirsi». Falso ancora una volta: la maggior parte di coloro che competono esce dallo scontro massacrata psicologicamente e per chi vince il risultato è deludente e il vuoto che ne segue costringe a preoccuparsi subito del prossimo confronto, generando così una logica di assuefazione e dipendenza. Quarto: «La competizione rafforza il carattere». Il problema è: che carattere? Quello di una persona, appunto, competitiva. E' un circolo vizioso: se vincere è l'unico criterio di valore allora avrà un buon carattere chi sa vincere senza scrupoli e senza ritegno, e un'educazione che rafforzi questi tratti non potrà che rafforzare il carattere. «Detto in parole povere, ci comportiamo in modo competitivo perché veniamo istruiti a farlo e perché nella nostra cultura il successo sembra richiedere tale condotta». Nell'ultimo capitolo Kohn presenta alcuni sviluppi nella teoria e pratica dell'apprendimento scolastico cooperativo e se ne serve per invitare alla fiducia nella possibilità di un cambiamento. Ma gli manca il talento visionario e argomentativo per risultare davvero illuminante. Così di questo libro rimangono nella memoria soprattutto alcuni episodi significativi e deprimenti, a testimonianza delle tattiche maligne con cui la competizione si è installata da dominatrice nella società contemporanea. Come questo, per esempio: lo psicologo Jean Piaget chiede a Mar, di sei anni*. «Chi ha' vinto?» Il bambino rispónde: «Abbiamo vinto tutti e due». E Piaget, implacabile: «Ma chi è che ha vinto di più?». Ermanno Bench/enga Un sociologo antropologo vuol ribaltare il più diffuso e indiscusso luogo comune della mentalità americana Un mito da sfatare: non è dimostrato che fa bene al carattere e alla produzione . Educare al successo sempre e a ogni costo genera frustrazione li SOCIETÀ' LA FINE DELLA COMPETIZIONE Alfie Kohn traduzione di Michele Porzio Baldini&Castoldi pp.473 L 38.000 Jean Piaget, psicologo competitivo

Persone citate: Alfie Kohn, Ermanno Bench, Jean Piaget, Kohn, Piaget, Porzio

Luoghi citati: America, Quarto, Sesto Empirico, Stati Uniti