L'ambiguo aiuto del fratello russo di Giuseppe Zaccaria

L'ambiguo aiuto del fratello russo L'ambiguo aiuto del fratello russo L'ambiguo aiuto del fratello russo Analisi SKOPJE DAI. NOSTRO INVIAI () Veiil'anni dopo la guerra il Maresciallo del Popolo Vladimir Zdanov, liberatore di Belgrado, stava tornando in Jugoslavia per celebrare la sua antica impresa. Il suo «Tupolev» si schianto per un errore del pilota Raccontano ancora che il commento privato di Tito fosse stato: «Mai fidarsi dei russi...». Neanche oggi la Serbia si fida fino in fondo: Evghenj Primakov ha appena incontrato Milosevic, ha detto che i colloqui sono stati «positivi», pensa di poter fare interrompero i bombardamenti. La Jugoslavia spera ma non ci crede: troppe volte l'allealo storico, il fratello maggiore, quel remoto catalizzatore di sogni e passioni ha deluso i cugini del Sud. E' una sorta di parente screanzato, di cugino potente e benvoluto eppure impresentabile. Uno di quelli che potrebbero darti una inailo, ne avrebbero forse il modo, ma poi Uniscono sempre per abbandonarti al tuo destino. Quello del vincolo di sangue, dell'infrangibile alleanza tra russi o jugoslavi è una sorta di mito che continuiamo a tramandarci do quarant'anni. Forse, in un momento simile diventa rapporto da scandagliare. «Veian kao rus», si dico in serbo quando non ci si vuol fidare: credibile quanto un russo. Il detto popolare fa il paio con «pike kao rus», beve come un russo il che, detto da un popolo di bevitori efferati, dà forse la misura della considerazione reciproca. In «Anna Karenina» Tolstoj racconta fra l'altro del colonnello Rajevsky, l'eroe russo che «ha sepolto il suo cuore in Serbia». Quell'eroe ci fu davvero, morì nel 1875 partecipando alla grande sollevazione dei serbi contro l'Impero Ottomano, in omaggio al suo cuore fu edificata una chiesa che esisto ancora. Eppure fuori dall'enfasi letteraria anche nel secolo del Romanticismo il rapporto tra russi e consanguinei del Sud sembrava riflettere la rispettiva, scarsa considerazione. I serbi erano solo i contadini cui ogni tanto bisognava dare una mano. A tratti un principe, un generale, uno zarista scaricato dall'Anna Karenina di turno partivano per Belgrado o Sebastopoli, s'immolavano sull'onda del medesimo sentimento: morire aiutando i poveri slavi affacciati sull'Adriatico. Arrivavano, combattevano, si sacrificavano e nessuno poteva rendersi conto di come i serbi riuscivano a rimanere tanto solidali nel momento della lotta ma nello stesso tempo così sospettosi. Il fatto è che quest'altra gente, per quanto slava, avrebbe preferito sentirsi europea. Ed esauriti gli eroismi ottocenteschi, il secolo delle ideologie e della tecnologia finì con lo scavare un baratro tra «cugini». Pochi forse ricordano cho la Jugoslavia è stato l'ultimo Paese europeo a stabilire rapporti diplomatici con l'Urss. Era il 1940, gh anni fra le due guerre avevano visto Belgrado tramutarsi in rifugio dei rifugiati, grande patria degli esuli zaristi. A Dedinje, la collina chic di Belgrado, proprio di fianco alla villa in cui Jovanka Tito sta consumando la sua protettissima vecchiaia, c'è una costruzione che purtroppo cade in pezzi, ma è l'esatta copia dell'isbà di Puskin. Un ricco esule russo l'aveva fatta costruire negli Anni Venti, adesso ospita la famiglia di un simpatico ingegnere che si chiama Mirko Vrhovac. Dopo averla ereditata, sta cercando di venderla perché non potrà mai permettersi un restauro. Restaurare questo rapporto periclitante e sempre sopravvalutato potrebbe essere oggi uno degh effetti della missione-Primakov. Dipende da quanto Mosca è disposta a spendere (nel senso della credibilità, beninteso). C'erano molti russi, un tempo, a Belgrado: prima dell'ultima guerra, oltre agli esuli politici molti poliziotti erano adoperati dal re Alessandro come cacciatori di comunisti. Pochi anni più tardi - dopo la guerra partigiana e la comune vittoria - Tito avrebbe impresso ai «rapporti fraterni» una brusca sterzata, rompendo con la linea sovietica e riempiendo l'isola di Dugi Otok di lager destinati agli staliniani. Da quel momento, la Jugoslavia avrebbe tentato sempre più di trasformarsi in una sorta di California dell'Est, dove ogni cittadino sovietico sognava di trascorrere una vacanza così vicina al profumo di capitalismo. All'inizio dell'interminabile guerra di Jugoslavia i russi combattevano da entrambe le parti. Nel '92, in un ospedale militare di Zagabria incontrai un sergente moscovita del contingente Onu che aveva appena perso una gamba in Slavonia. Era saltata una mina probabilmente piazzata da altri russi, ex specialisti venuti dall'Afghanistan che combattevano fra i «volontari» serbi, in parte per passione e molto per danaro. Forse adesso finalmente gli amati e lontanissimi fratelli stanno per svolgere un ruolo decisivo. Se dovesse accadere, anche quella barriera trasparente che separa i due popoli potrebbe infrangersi, e questa è una variante da considerare. Anche in questi giorni a Belgrado ci sono telefoni che squillano e persone che rispondono. Uno dei mi¬ gliori studiosi di queste relazioni, un uomo che ha scritto trattati sulla materia, oggi viene considerato criminale di guerra. Si chiama Dragoslav Bokan, durante la guerra di Bosnia si trasferì a Pale, in casa Karadzic. Mentre gh uomini di Arkan e Seselj continuavano a distruggere e uccidere, lui restava l'ideologo, il teorico di un imminente scontro finale tra serbi e resto del mondo, che allora appariva delirante e adesso è in atto. Bokan appartiene a quel tipo di persone che prima di morire sotto tortura, con l'ultimo respiro esalano un soddisfatto: «Non ho cambiato idea...». E le sue idee sono pericolosissime anche per il regime di Milosevic. Bokan vive da due anni agli arresti domiciliari. «Fra la Russia e noi - spiega al telefono con tono un po' professorale - esiste da sempre un rapporto artificiale. Siamo entrambi Paesi ortodossi, che vivono nel mito del Patriarca e sulla medesima, antica organizzazione sociale». In russo si dice «zemstvo», in serbo «zàdruga»: è la medesima, primigenia idea del gruppo, della comunione totale, che resiste ad ogni insulto della sorte. «Oltre a questo però c'è ben poco - insiste Bokan -. La Russia ha sempre tentato di usare la Serbia per i suoi interessi geopolitici. I serbi ingenuamente immaginavano la grande crociata slava, il giorno in cui con l'aiuto di Mosca i cristiani, gli ortodossi, gli slavi avrebbero ripreso Zarigrad, cioè Costantinopoli. A parto il fascino di questi miti, nessuno di noi crede più ad un'autentica vicinanza». Pensa ad un effetto diverso, il professor Bokan: «In questi giorni, a Belgrado, dimostranti bruciano bandiere americane, francesi, inglesi, montenegrino. Non una sola bandiera albanese, il che dimostra quanto consideriamo il problema. Al contrario, sono stati sventolati vessilli greci o macedoni, ma neanche uno russo. Questo popolo capisce di essere stato abbandonato dal mondo. Può riprendersi solo con una grande rivoluzione sociale». Sarà una rivoluzione assolutamente originale, giura Bokan, senza nuovi regimi, misurata dalla geometrica lontananza di Est ed Ovest. «L'Europa coltiva la cultura dell'ironia, noi siamo gli ultimi interpreti della cultura del "pathos". Potremo riemergere un giorno solo calandoci nel profondo delle nostre radici». Il più antico dei simboli comici non dice forse «solo la solidarietà salva i serbi»? Giuseppe Zaccaria Il maresciallo Josip Tito