Djukanovic a Milosevic: accetta il negoziato di Vincenzo Tessandori

Djukanovic a Milosevic: accetta il negoziato Djukanovic a Milosevic: accetta il negoziato Nel Montenegro coinvolto in una guerra che non vuole LA REPUBBLICA PODGORiCA DAL NOSTRO INVIATO Al posto di frontiera di Bozaj non passa nessuno. Da quattro giorni le guardie montenegrine non vedono anima viva. «Soltanto i missili Tomahawk, tutte le sere, appena scoccate le 8», dice Saja Kovacevic, ventinove anni, un gigante di quasi due metri che subito chiede notizie della nazionale italiana di calcio. «Gioca con i danesi, vero? E' al completo? Anche io faccio football: portiere». Sorride, ma subito si rabbuia. «Quei missili arrivano da dietro il colle, dall'altra parte del lago, o di là, dall'Adriatico. E' un attimo, subito spariscono, credo, in direzione del poligono militare di Ladovece». Veloci, dice, bestioni di oltre sei metri e del peso di una tonnellata e mezzo. «Hanno bombardato verso Podgorica, di notte si sentono i boati». Quassù, a cento metri dal posto di polizia albanese chiamato Hani i Hoti, sem- bra di vivere la pace di un eremo. Sono due anni che le sbarre rimangono ufficialmente abbassate, passano soltanto «personaggi speciali». Stavolta siamo io e due col leghi i «personaggi speciali». La voce arrivata a Scutari era di duemila kosovari in attesa, forse a Tuzi, che è fra la frontiera e la capitale montenegrina. Ma in paese dicono che gli ultimi profilili sono arrivati almeno due mesi Quelli del Montenegro la guerra non sembrano volerla, il presidente Milo Djukanovic è stato chiaro, in questo senso: ieri ha chiesto a Milosevic di «porre fine al conflitto con la comunità internazionale» e di accettare il dialo- go. Ma è Belgrado che decide e Podgorica più che aver l'aspetto di una città presidiata, ha quello di un centro occupato militarmente. I soldati, armati di kalashnikov e protetti dai giubbotti antiproiettile e da elmi in kevlar, quelli che sono l'ultimo grido della dotazione Nato, incrociano davanti al palazzo del Parlamento, quello della Presidenza, della Posta, della televisione. Quasi a ostentare il disinteresse la gente affolla i tavoli all'aperto del Crna Gora, un hotel che per qualche motivo vien considerato un capolavoro tanto che una targa in bronzo celebra il trionfo dell'Arkiteta Vujadin Popovic. Con le tenebro, poro, il volto di questa città subisce metamorfosi. La gente si chiude in casa e aspetta, gli occhi puntati al cielo, da dove arriva il nemico. E' già stato bombardato due volte l'aeroporto militare di Goludovci, distante pochi chilometri. Ma gli apparecchi sono riparati dentro il ventre della montagna. Danni, dicono qui, alcuni feriti e un soldato ucciso. Più che la guerra, ne sembra l'eco un po' fioca. Eppure, lungo la strada e nei boschi, l'esercito ha disseminato camion, lanciarazzi cingolati, accampamenti. Al ponte sul fiume Ciuma si finisce in un posto di blocco che all'arrivo il taxista era riuscito ad aggirare. Fredda cortesia, controlli accurati, e dopo mezz'ora, il consiglio di togliersi dai piedi. Va peggio al guidatore di un Foni Galaxy piombato a quasi cento all'ora in mezzo ai soldati. Mani sul cofano, le gambe allargate con due calci. 1 soldati sono serbi e i sorbi si fidano soltanto di loro stessi. L'inferno è altrove e dall'inferno arrivano notizie raccapriccianti che, però, nessuno può confermare perché, «di là» il Kosovo, non ci sono testimoni. Ma non soltanto rimbalzano le notizie Ci sono anche i disperati che riescono a passare tra lo maglie della rete stesa dai serbi oppure quelli che vengono cacciati. Come nei giorni scorsi, ancora a Dobrun ne sono arrivati 200, e poi altri 1300, e altri ancora, Dio solo sa quanti, si troverebbero tuttora al di là della frontiera pronti a cogliere la prima occasione. E poi le scaramucce contmue, si chiamano così gli scontri a ridosso della linea di demarcazione. Con i serbi, dicono a Tirana, molto aggressivi. Nella città di Kukes si è organizzato il quartier generale albanese per fronteggiare, prima di tutto, l'invasione, data per sicura, dei kosovari in fuga. Su al Nord sono accorsi il presidente Rrexhap Mejdani e il primo ministro Pandeli Majko. Primi provvedimenti: rimettere in sesto il sistema delle sirene di allarme e rifugi antiaerei, perché nessuno sottovaluta il pericolo che, a ridosso dei poveretti in fuga, ci siano i serbi. Massima attenzione, dunque, ha raccomandato Mejdani, «per la difesa della popolazione e per la sua sensibilizzazione, perché è importante che la gente si renda conto di quel che gU accade intorno». E arriva un'altra notte, a Tirana odono il rombo di uno stormo di bombardieri ad alta quota, dalla collina davanti al posto di frontiera di Brosai la guardia Kovacevic vede un altro Tomahawk. Vincenzo Tessandori Anche qui sono caduti i Tomahawk l'aeroporto è stato danneggiato e c'è stato almeno un morto Ai posti di blocco i soldati sono serbi, trattano con durezza chi fermano e intimano: andatevene Il presidente del Montenegro Milo Djukanovic è contrario alla linea dura di Milosevic