«Italiano nazista, vattene» di Giuseppe Zaccaria

«Italiano nazista, vattene» LA GUERRA OSCURATA «Italiano nazista, vattene» Espulso da Pristina con tutti i giornalisti GENERAL JANKOVIC DAL NOSTRO INVIATO Questa sarà una guerra vera: qualcosa che non si concluderà con tre, o cinque o venti giorni di bombardamenti Nato. Adesso, scappando come un profugo da una Pristina devastata e deserta, gli scorci che prima la città poi la lunga strada per Skopje aprono sono quelli di un Paese ormai del tutto militarizzato. Villaggi e campagne mostrano blindati e carri che sostano ben distanziati l'uno dall'altro, radar mobili, piccole unità attrezzate alla lunga resistenza giocata sulle tattiche ed in parte sullo spirito di quella partigiana. All'una, il capo del centro stampa di Pristina, Radovan Urosevic, è arrivato con l'aria sconvolta, ha convocato quelli che erano rimasti e ha detto: «Ragazzi, dovete andarvene subito». Il decreto di espulsione di Milosevic era stato appena trasmesso da Belgrado. Tutti i giornalisti stranieri a Pristina dovevano abbandonare immediatamente il Paese. Che i «nemici» dovessero andarsene, era già chiaro dall'altra sera, quando esattamente alle 20,10 la luce è caduta di colpo e tutte le sirene d'allarme hanno preso a suonare. I primi boati si udivano già da un po' di tempo, arrivavano da Est in successione martellante, che ogni tanto lasciava spazio ai rombi dei jet. Hanno colpito l'aeroporto. Hanno colpito la base aeronautica di Malisevo. Hanno colpito i civili. Al buio, fra scale di emergenza che d'un tratto si sono popolale di brutti ceffi armati di mitra, le notizie s'inseguivano senza alcuna possibilità di controllo. «Ci sono già tre morti fra la popolazione. A Kurshmumlja, 70 chilometri da qui, hanno centrato un palazzo che sorgeva vicino ad una caserma». Arriva la seconda ondata. Le esplosioni tornano a rincorrersi, tre paiono vicinissime, qualche vetro va in frantumi, le strutture del vecchio hotel «Grand» vibrano seminando nell'aria nuvole di polvere post-socialista. Gruppi di uomini armati, ma senza divise, cominciano ad attraversare i corridoi bui bestemmiando tutti i santi dell'Occidente, prendendosela con la Nato, gli americani, il mondo intero. Spalancano le porte a calci, entrano coi mitra spianati. Uno mi incontra e fa: chi sei? «Ja sani novinar za Italije». Ah, fa lui: un giornalista italiano? Che sta facendo Dini? Il tentativo di illustrare in lingua serba le linee-guida della nostra politica estera, chissà come deve risultare di qualche efficacia. L'energumeno ascolta con interesse mentre da una stanza vicina un fotografo spagnolo viene portato via a forza da altri tre agenti. Ma che sta succedendo? «Spulili», risponde secco il poliziotto in borghese. Più tardi si capirà che un cameraman spagnolo era salito sul tetto dell'albergo per tentare riprese in stile-Baghdad, e nella psicosi dell'aggressione qualcuno l'ha denunciato: «Faceva segnali per dirigere gli attacchi aerei della Nato». Ormai nel buio dei corridoi si accavallano ordini, grida, clangore di mitra che si armano, proteste. «Rifugiatevi nel press-center», dicono i responsabili serbi dell'organizzazione. Una mezz'ora, e una serie di fantasmi armati di candele si ritrovano più o meno vestiti, più o meno impauriti, ad aspettare la prossima ondata. Giungono altri brandelli di informazione. «L'Uck ha approfittato dei bombardamenti Nato per attaccare le nostre caserme nella zona di Srbica». Anche in queste notti di ferocia si trova il tempo per scambiarsi raffiche ed accuse, per tentare di far fuori il nemico. Già, ma a partire da queste ore chi è il vero «nemico»? Siamo noi, è ovvio. Non solo l'America, o quella strana entità che chiamavano Europa. Ma proprio noi, gli ex amici d'Italia. Quando all'alba rientrerò nella mia stanza troverò la devastazione. Bagaglio, com¬ puter, tutto sparito, sventrato. Tutto ridotto ad immondizia: chi ci ha lavorato, l'ha fatto per sottolineare tutto il suo disprezzo. Quel certo margine di simpatia, 0 almeno di tolleranza che i serbi mostravano verso di noi sembra scomparso, liquefatto. Già dalle prime ore del mattino, chi fino a ieri ti sorrideva adesso volge lo sguardo altrove. Se stupidamente domandi come è passata la notte, 1 più gentili ti rispondono: «Bene, ero sotto le vostre bombe...». L'atmosfera si riscalda rapidamente, l'albergo si sta riempiendo di serbi molto, molto arrabbiati. Uno che tempo fa mi aveva perfino invitato a bere una «loza» adesso mi apostrofa da lontano: «Vattene, jabaro. Prendi la macchina e tornatene ad Aviano». Per i serbi, noi siamo i «jabari»; vuol dire mangiatori di rane, è un soprannome che chissà perché ci troviamo affibiato da secoli, ma in genere con tono di simpatia. Adesso è diventato un insulto e basta. Questa gente è in preda a shock collettivo, ogni traccia di ragionevolezza è stata cancellata dall'irragionevolezza delle bombe. In una sola notte l'animo della Jugoslavia è tornato di colpo al buio clima di cinquant'anni fa, al mondo sanguinoso e catacombale in cui i serbi furono sprofondati dall'invasione nazista. Quel «nazista» adesso lo ripetono tutti, ma è rivolto a te. Non c'è più molto da dire, ormai. Nel caos delle partenze di gruppo, nella ricerca semidisperata di un'auto che accetti di con¬ durti al confine, c'è anche spazio per qualche attimo di umanità. Il cassiere serbo che dopo aver fatto i conti riceve l'ultima mancia si alza, ti bacia tre volte e dice che gli dispiace, che i tempi sono terribili, che spera di vederti ancora sano e salvo «dopo la guerra». Il capo del centro stampa per abbracciarti mette giù i bidoni di gasolio che sta trasportando per un generatore di elettricità. Il televisore piazzato nella hall continua a mandare in onda da ore lo stesso documentario sulla guerra partigiana. La giornata ò limpida, assolata. In altri tempi ne sarebbero stati tutti felici, oggi il cielo limpido significa solo maggior pericolo di incursioni aeree. Eppure i gruppi di soldati schierati lungo la campagna salutano i blindati di «Franca 2» o della «Reuter» con grandi saluti e risate. Lo avevano fatto anche nel momento della fuga dell'Osce. Lanciano il segno intemazionale della vittoria, sembrano lì per una scampagnata piuttosto che per difendere la Serbia a oltranza. Al valico, verso la Macedonia, i doganieri sono più pignoli del solito. Aprono borse, se scoprono che sei senza bagagli ti palpano alla ricerca di chissà che cosa. Appena entrati in Macedonia, altri blindati. Ma questa volta sono i nostri. I «VM» del contingente italiano, quelli guidati dai bersaglieri, pattugliano la frontiera. Giuseppe Zaccaria Armati irrompono nel rifugio mentre fuori esplodono le bombe: «Tornatene ad Aviano». E nella stanza dell'albergo tutto è stato rubato o distrutto

Persone citate: Bagaglio, Dini, Milosevic