la Serbia sceglie la guerra contro tutti di Giuseppe Zaccaria

la Serbia sceglie la guerra contro tutti Holbrooke lascia un ultimo messaggio: se il Presidente ci ripensa ha il mio numero di telefono la Serbia sceglie la guerra contro tutti Mobilitazione generale, «non cederemo agli stranieri» PRISTINA DAL NOSTRO INVIATO Adesso non resta che aspettare la «notte dei fuochi»: l'ultimo tentativo per evitare il bombardamento della Jugoslavia, l'inizio di una crisi lunga, profonda, pericolosissima è fallito ieri pomeriggio. Da questo momento missili e bombardieri della Nato potrebbero violare in qualsiasi attimo i cieli della Jugoslavia. Richard Holbrooke è rientrato a Bruxelles, Milosevic in apparenza non cede: i serbi non accettano truppe straniere sul proprio territorio ed anzi mobilitano il Paese, fanno echeggiare richiami alla guerra partigiana, alle tradizioni più profonde, alle cento sanguinose guerre che questa gente ha combattuto nella sua storia. Nelle case, come cinquanta o cinquecento anni fa si accendono grandi ceri gialli al santo Sava o allo Sveti Nikola che s'invoca nei momenti di calamità. Nelle basi radar si mettono a punto le ultime difese elettroniche. Nelle città si tirano fuori dall'armadio i mitra personali. Prima di ripartire dopo due lunghi incontri con colui che un tempo l'America definiva «costruttore di pace», Holbrooke ha affidato alla storia pochi, secchi commenti: «Ho voluto assicurarmi che Milosevic avesse compreso appieno il messaggio della comunità intemazionale: mi ha assicurato di sì. Da quando, qviattro anni fa, abbiamo iniziato gli sforzi diplomatici questa è la situazione peggiore». Il mediatore ripartiva per Bruxelles, dove avrebbe riferito ai vertici della Nato. Gli hanno chiesto se dopo questo fallimento esistesse ancora una qualche via d'uscita. «Le comunicazioni restano aperte anche in tempo di conflitti », è stata la risposta. «Mister Milosevic ha il mio numero di telefono e quelli degli altri mediatori». Chissà quante ' distruzioni, quante vittime saranno necessarie prima che qualcuno di quei telefoni squilli. Ieri il Parlamento serbo era riunito in seduta straordinaria: per qualche ora si ò abbandonato ad esercitazioni di retorica in attesa di conoscere le decisioni del Grande Capo. Alla fine, il proclama era per la resistenza ad oltranza, pratica alla quale questo popolo è aduso da generazioni. Il presidente serbo Milutinovic lancia un appello che vuole scuotere nel profondo l'orgoglio nazionale: «Cedere alle richieste straniere, rimmeiare alla nostra sovranità significherebbe la fine dello Stato serbo». Corica Gajevic, segretario generale dell'Sps, il partito del presidente, detta in contemporanea l'ordine alle masse: «Non accetteremo truppe straniere sotto qualsiasi pretesto ed a qualsiasi prezzo, anche quello dei bombardamenti». La Macedonia si appresta a chiudere lo spazio aereo, e intanto sbarra i confini a chiunque abbia passaporto jugoslavo: quasi diecimila profughi si affollano ai tre valichi cercando di sfuggire al peggio. L'Albania organizza mobilitazioni e chiama all'impegno patriottico i cittadini «di ogni tendenza politica». La situazione non potrebbe essere peggiore. Eppure c'è un elemento sul quale riflettere: ufficialmente Holbrooke nega che nei lunghi incontri con Milosevic ci sia stata «trattativa», ma quando gli e stato chiesto di cosa mai, allora, si fosse parlato ha preferito rifugiarsi dietro la «confidenzialità» della cosa. Forse non è del tutto azzardato ipotizzare una sorta di accordo per il dopo-bombardamento, qualcosa che spinga la Nato ad una prima ondata di attacchi «leggeri», dimostrativi, in attesa del «sì» che a quel punto Milosevic potrebbe imputare alla necessità di preservare la nazione. Un accadimento di ieri sembra rafforzare quest'ipotesi: dopo le epurazioni ai vertici dell'esercito, ieri Milosevic ha sostituito anche il responsabile della sicurezza militare, il potentissimo Alexandar Dimitrjevic. Al suo posto c'è un generale della Vojvodina che si chiama Geza Farkas. Potrebbe trattarsi di un altro «giro di vite», ma osseivatori più sottili collegano l'estromissione di Dimitrijevic alla possibilità di un voltafaccia che, questo sì, provocherebbe reazioni nei ranghi di un esercito carico d'orgoglio guerresco e delle frustrazioni accumulate nella guerra di Bosnia. L'orgoglio nazionalistico, l'ag¬ gPppogsadnztoldt gressività serba percorrono il Paese, attraversano città e campagne, giungono fino alla remota provincia del Kosovo. Pristina è ormai una città deserta, tutti i negozi sono chiusi, molti telefoni squillano a vuoto. Ieri mattina, attraversare la città alla ricerca delle tracce dell'ultima, tenibile notte era come girare per certe zone di Belfast. Al bar «Koha», dove un uomo di trent'anni è morto, poca gente ad osservare le bande di plastica della polizia che delimitano la «zona d'indagine». Verso le sette e mezza di sera, un giovane serbo rapato a zero ha aperto la porta del bar ed ha lanciato una bottiglia piena di dinamite. La devastazione è totale, i feriti sono stati una ventina. Poco più in là, in una zona albanese con qualche pretesa di modernità c'è il bar «Marjan», un luogo dove d'estate i ragazzi albanesi siedono a centinaia. Un «commando» ha sparato a raffica sulle vetrine, una ragazza di vent'anni ò stata la prima vittima. Poco più tardi a Velanje, in periferia, altri tre poliziotti serbi sono stati uccisi in un'azione da «commando». Due sere fa, quattro uomini della «Milicja» erano caduti in un agguato simile. La polizia ha rastrellato i quartieri vicini, provocando ima sorta di esodo urbano. Adesso, a tarda seta, si odono esplosioni dappertutto. Giuseppe Zaccaria Un Tornado tedesco al decollo dalla base di Piacenza: il debutto della Germania