MILOSEVIC ALLA FINE DELLA CORSA di Enzo Bettiza

MILOSEVIC ALLA FINE DELLA CORSA MILOSEVIC ALLA FINE DELLA CORSA Ly ULTIMO margine di ritirata e di salvezza di Slobodan Milosevic è caduto. Il vicolo cieco in cui testardamente ha infilato il Kosovo, la Serbia, la «piccola Jugoslavia» e, infine, se stesso, non gli lascia più spazi di manovra. La sconfitta a doppio taglio è ormai alle porte, fra Pristina e Belgrado. Se Milosevic avesse deciso all'ultimo secondo di accettare l'accordo di tregua già firmato dai capi kosovari, avrebbe subito una dura sconfitta politica, vedendosi costretto dalla volontà degli occidentali a ritirare dal campo un esercito di decine di migliaia di soldati. Non cedendo rischia di subire una sconfitta militare di proporzioni devastanti: molto più devastanti, anche nelle implicazioni sul piano interno, di quelle a suo tempo inflitte dalla Nato allo staterello serbo bosniaco di Radovan Karadzic. Ieri sera Holbrooke ha gettato la spugna. Clinton ha pronunciato l'ultima parola. Il segretario della Nato, Solana, non ha più bisogno di ordini ulteriori per scagliare sulla Serbia i missili e i bombardieri dell'alleanza; al punto estremo, cui sono giunte le cose, la macchina atlantica può mettersi in moto ad ogni minuto. In questo scenario, che e già scena vera, sia la paci; che la guerra risultano letali per il despota di Belgrado. Con la pace egli avrebbe perso la faccia; con la guerra perdi; oltre la metà della sua potenza d'urto e di deterrenza militare. Il rischio che Milosevic corre in sovrappiù è di perdere a medio termine anche il Kosovo, dove la guerriglia di liberazione, coperta dai bombardamenti Nato, troverà nuovi spazi d'azione e di penetrazione dopo quelli già conquistati negli ultimi mesi. Per i serbi il Kosovo è la placenta della loro civiltà, dei loro reami medievali, dei santi patroni ortodossi, delle omeriche sconfitte contro i turchi trasformate in glorie postume e mitiche. E' come se gli italiani perdessero la torre di Pisa, i francesi la cattedrale di Notre Dame, gli americani la statua della Libertà. Ma l'unico modo, per 1 serbi, di riuscire a conservare ragionevolmente il Kosovo avrebbe dovuto essere quello di restituire a due milioni di albanesi ciò che Milosevic gli tolse nel 1989. L'autonomia regionale, le scuole, la lingua negli uffici e nei tribunali, la protezione sanitaria alle partorienti; il tutto completato, magari gradualmente, da una struttura repubblicana più incisiva nel quadro federativo della «piccola Jugoslavia» dominata da Belgrado. Gli schipetari moderati di Rugova costituivano la vera sponda alla quale una Serbia liberale, europea, responsabile avrebbe dovuto appoggiarsi con diplomazia per salvare il salvabile. Purtroppo la Serbia di Milosevic, maestra di «pulizie etniche» asiatiche, illiberali, irresponsabili, ha delegittimato con le sue aggressioni i «gandiani» di Rugova, facendo riemergere dalle viscere della regione l'istinto belluino degli ancestrali illiri, avi degli albanesi attuali. I guerriglieri dell'Uck hanno ormai abbandonato l'intellettuale Rugova, «Gandhi dei Balcani», per sposare fino in fondo le tesi e le strategie vietnamite del poeta soldato Demaci. Il terribile decennio di Milosevic sembra giungere cosi al termine del lungo viaggio nella notte. Non si vede quale uscita di sicurezza egli possa imbroccare con i guerriglieri in casa, i missili sulla testa e i giovani serbi frustrati e denutriti che non vogliono morire per Pristina. Enzo Bettiza