IL RITORNO DEGLI STOICI SENECA MEGLIO DI EPICURO

IL RITORNO DEGLI STOICI SENECA MEGLIO DI EPICURO IL RITORNO DEGLI STOICI SENECA MEGLIO DI EPICURO Un saggio biografia di Veyne e un 'antologia di frammenti UBITO che nel rastrellamento del pensiero antico, favorito da benemerite iniziative editoriali, la dottrina stoica possa godere della medesima sorte toccata alla «consorella nemica»: la dottrina epicurea (o meglio, alla vulgata epicurea). Si tratta pur sempre di un pranzo di magro che i volenterosi si sforzano di gustare mentre sbirciano intorno superbi arrosti di cacciagione. E' però un dato di cronaca: appaiono simultaneamente, grazie soprattutto a Laterza e al Mulino, testi di grande rilievo per la comprensione dello stoicismo: sia quello cupo, radicale, del 300 a.C, sia quello temperato dei secoli successivi: da Zenone di Cizio, Cleante e Crisippo, al «leggibilissimo» Cicerone, al trascinante Seneca. Non abbiamo, purtroppo, scritti completi del periodo originario, se si eccettua un Inno a Zeus di Cleante, come avverte Carlo Natali nella prefazione all'Etica stoica. Dobbiamo contentarci dei compendi talora monocordi, oscuri, e ugualmente preziosi di Ario Didimo e Diogene Laerzio, introdotti dalle pagine magistrali di Julia Annas. E se per Diogene Laerzio l'anagrafe è limpida, univoca, per Ario Didimo l'identificazione si tramuta in rebus giacché almeno tre Arii entrano in gara. Curiosità inarginali, se si vuole, che provocherebbero il sarcasmo di qualche stoico d'annata. Gli stessi Ario e Diogene, qui nei panni di onesti trascrittori, le giudicherebbero un deprecabile vizio di erudizione e legittimamente s'impennerebbero: anzi¬ ché tuffarti nelle acque magari gelide ma pescose che proponiamo, tu lettore vai baloccandoti col testa e croce del «Chi è!». L'inventario del sapere stoico, è opportuno sottolinearlo, non concede tappe di ristoro. Virtù, saggezza, natura e una fantastica felicità scandiscono il passo, come altrettante figure allegoriche, lungo le balze che conducono al sommo bene. Ti sorridono a distanza e non si commuovono se nell'approccio metti il piede in fallo. Di rado Ario e Diogene si azzardano a mediare, a tradurre l'essenza del verbo in fruibile scienza e conoscenza: spetta a noi ricavare una decente arte del vivere. Rapidi i passaggi che contemplano l'amore (da intendere quali contrafforti e squisiti ornamenti dell'amicizia), o l'impegno politico (un'ideale «mistione di democrazia, monarchia e aristocrazia» che affonda logore maggioranze e minoranze nella corsa al potere), oppure il comportamento sessuale (nulla a che vedere con l'amore di cui sopra): «Gli Stoici proclamano la comunanza delle donne tra i sapienti, sì che ogni uomo possa avere relazione con ogni donna, e avrà fine la gelosia derivata dall'adulterio». Entrambi i testi invitano poi, con un filo di sadismo, a valutare l'intrinseca vacuità delle cosiddette risorse «indifferenti», cioè «cose che non portano né vanUiggio né danno», che non favoriscono né propensione ne avversione. E a ciglio asciutto elencano: salute, piacere, prestanza fisica, reputazione, denaro, censo. E i loro contrari: infermità, angoscia, bruttezza, miseria, ignominia... E' vero, qua e là i trascrittori, quasi a scusarsi di tanto zelo didattico, cercano di distinguere all'interno del bagaglio «indifferente» i diversi gradi di accettabilità, di sensibilità, gli sconti da ottenere, chiudendo un occhio; ma la freccia è ormai partita, i termini sono ormai categorici: o vertice di perfezione o tragica stoltizia. E non c'è purgatorio ove tirare il fiato. Interviene per fortuna Seneca, pensatore «dal volto umano» a rendere piii duttile il credo massimalista. Un Seneca - (piale ci viene restituito nel bel saggio di Paul Veyne [Seneca, il Mulino, pp. 252, L. 32.()()())- che attinge con misurato appetito alle gioie dell'esistenza. Autore celebre, sentitore magnanimo, paladino di drammaturghi, musici e poeti in disse¬ sto, precettore e blando adulatore del tiranno, straordinariamente ricco, adorato dalla moglie Paolina, accorto negli affari (fonda, ad esempio, una banca di credito e poco si cura della diceria metropolitana: essere il parvenu di Cordova uno sfrontato usuraio). La campagna lo entusiasma non meno della mondanità; appena gli riesce di sottrarsi alle moine di palazzo corre a godersi il magnifico vigneto che possiede a Mentana. Stoico di formazione, venato di amabile eresia, Seneca è ben consapevole del duplice capolavoro che lascia ai posteri: le Lettere a Lucilio e lo stile di una morte volontaria. Paul Veyne si sofferma in particolare sulla lettera 70 in cui il maturo filosofo anticipa l'apologia del proprio suicidio e risponde ai queruli censori che non inanelleranno di rimproverargli o la debolezza o l'avventatezza dell'atto esecutivo. «Uno dirà che io ho agito con scarso coraggio, un altro troppo temerariamente, un altro ancora che vi sarebbe stata unti conclusione più virile», ricordando che un suicida era ritenuto coraggioso o vigliacco a seconda dello strumento prescelto (coraggioso chi adoperava un'arma, vigliacco chi si gettava dalla finestra). Seneca, lo sappiamo, opta per la cicuta e ridesta facilmente l'epilogo di Socrate. Ma Paul Veyne si guarda dal chiudere la densa monografia senza aver precisato che Socrate e morto ringraziando Esculapio per la liberazione della sua anima e del suo corpo; Seneca, invece, muore ringraziando il dio stoico per avergli fornito le energie intellettuali necessarie ad affrontare l'estremo cimento, Un punto connine tuttavia c'è: l'uno e l'altro danno scacco ai macabri trimili della Morte. Giuseppe Cassieri Sia (incili radicali e cupi del 300 a.C. sia (fucili temperali dei secoli successivi: da Zenone di Cizio, Cleante e Crisippo al srande ( 'icerone Al centro un ritratto di Seneca Accanto una scena di rappresentazione teatrale (da un mosaico pompeiano) SENECA Un saggio biogETICA STOICA Laterza, pp. 107, L. 20.000 UBITO che nel rastrellamento dbenemerite iniziative editoriali, della medesima sorte toccata alla epicurea (o meglio, alla vulgata epun pranzo di magro che i volentersbirciano intorno superbi arrosti dE' però un dato di cronaca: apsoprattutto a Laterza e al Mulincomprensione dello stoicismo: sia.C, sia quello temperato dei secoCleante e Crisippo, al «leggibilisSeneca. Non abbiamo, purtroppo, scritti completi del periodo originario, se si eccettua un Inno a Zeus di Cleante, come avverte Carlo Natali nella prefazione all'Etica stoica. Dobbiamo contentarci dei compendi talora monocordi, oscuri, e ugualmente preziosi di Ario Didimo e Diogene Laerzio, introdotti dalle pagine magistrali di Julia Annas. E se per Diogene Laerzio l'anagrafe è limpida, univoca, per Ario Didimo l'identificazione si tramuta in rebus giacché almeno tre Arii entrano in gara. Curiosità inarginali, se si vuole, che provocherebbero il sarcasmo di qualche stoico d'annata. Gli stessi Ario e Diogene, qui nei panni di onesti trascrittori, le giudicherebbero un deprecabile vizio di erudizione e legittimamente s'impennerebbero: anzi¬ ETICA STOICA Laterza, pp. 107, L. 20.000

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