PATRIZIA VALDUGA L'ALLEGRO DOLORE di Giovanni RaboniGiovanni Tesio

PATRIZIA VALDUGA L'ALLEGRO DOLORE PATRIZIA VALDUGA L'ALLEGRO DOLORE MILANO RA i bordi dell'antico lazzaretto manzoniano e i frastagb deUa nuova «casbah» multietnica. La Milano di Patrizia Valduga è soprattutto qui. Piazza Oberdan, corso Buenos Aires, via Melzo, il quartiere di Giovanni Raboni diventato il quartiere più suo: «E' la zona che preferisco», dice sorridendo con ntro è l'ultimo libro appena pubbli dolce cantilena. Occasione deU'incontro è l'ultimo libro appena pubblicato da Einaudi, Prima antologia, un titolo umile che mette insieme la ristampa di Donna di dolori e Corsia degli incurabili e aggiunge un inedito duetto poetico-amoroso galantemente intrecciato con un «poeta incognito (e multiplo)» sulla sua identità anagrafica la Valduga si diverte a fare fuochino fuochino: «Un grande critico letterario, massimo conosci dll i ib d liii gtore della poesia itabana, dai lirici del Cinquecento al linguaggio del melodramma, im nome che compare in un paio di acrostici». Luigi Baldacci? «Non l'ho detto io». La casa è piena di libri. Dietro una parete del salotto d'angolo affacciato su un palazzo di via Spallanzani che gronda putti e stilemi liberty, uno scaffale a muro riservato ai dizionari, ai vocabolari, ai tesori di un patrimonio linguistico accumulato e tormentato con passione ossessiva (dalla Crusca a Girolamo Rosasco). Ma poi in un mobile bene in vista la collezione di una trentina tra cuffie e bandeaux Anni Trenta e in teche a muro più segrete le trecento paia di guanti anni cinquanta o le duecento paia («non di più») di scarpe d'epoca e di trousses intonate. Un giacimento parallelo per altri pastiches e trasfigurazioni. Del resto il gioco è abbastanza scoperto. Lo stesso nero del «peplo» (per dirla con il poeta ormai non più «incognito») non è che il travestimento di un domestico carnevale fatto per scongiurare il lutto e la morte. Lo stesso rosso dei capelli diventa la maschera di un umorismo che vince ogni sospetto di cattiveria o crudeltà: «Cattiva io? Io che ho preso tutti i sacramenti, sono stata al catechismo, ho fatto gb esercizi spirituali e vado a messa anche adesso tutte le domeniche e le altre feste comandate come esercizio di umiltà?». Il controcanto, come sempre, è nella musicalità portata della voce. Così, incontrare la Valduga è come vincere un luogo comune, abbattere uno stereotipo. La troppo prevedibile vestale della notte, la «dark lady» più volte descritta, si trasforma in una creatura che ha sete di luce e d'oro, la «donna di dolori» si veste di un'aUegria che, a ben vedere, non manca nemmeno nei suoi testi più melanconici e saturnini: «E' la lezione del teatro di Kantor. Non avrei mai scritto Donna di dolori se non avessi visto il teatro di Kantor, che ha sì a che fare con la morte ma che sa anche,divertirti con situazioni comiche. Kantor mi ha insegnato tre cose: la fedeltà a ciò che si ha, l'abihtà di far ridere e piangere insieme, strazio e nello stesso tempo conforto, e poi l'accessibilità, la capacità di usare la musica più povera per accompagnare le situazioni più difficili. Ma lui è un genio, io no», si compassiona la Valduga strascinando la voce con fìnto sconforto. Meglio va con il ricordo di Belluno e di Venezia, la città della memoria. A Belluno le scuole dalle elementari alle superiori: «Siccome ho passatoi la mia adolescenza tra le montagne è b che ritrovo mentalmente la mia verità e la mia serenità». A Venezia l'approdo congeniale alle terre con Francesco Orlando («Mi sono laureata con una tesi su Celine»), dopo tre anni passati a Padova in vani studi di medicina. A Milano quasi non resterebbe che il disprezzo («E' come non ci fosse»), se non seguisse un bilancio più pacato: «Grazie a Milano ho avuto l'opportunità di incontrare personaggi straordinari come Matte Bianco o Kantor, di frequentare Volponi, Testori, Fortini («Grandi tutt'e tre perché avevano in comune passione fortissima per ciò che facevano, i piccoh hanno passione solo per sé»), di conoscere nuovi maestri come Pascoli («Proprio tutto, da Myricae ai Poemi del Risorgimento») o Clemente Rebora («I Frammenti lirici sono stati una folgorazione»). Milano è stata anche l'opportunità di vivere con Raboni, ciò che la Valduga non dice se non in forma negativa: «Raboni è stato mia palla al piede per me, non ho mai potuto chiedere niente a nessuno e tutto ciò che ho avuto l'ho pagato a usura». E dice questo proprio mentre Raboni, con involontario senso dei tempi, entra in salotto accolto da lei in un gioco delle parti affettuosamente coUaudato: «Stavo dicendo che la nostra convivenza è ormai ai ferri corti», lo informa. E lui sorride. Ancore una volta è gioco, uno scampolo di commedia. Prima che il discorso tomi sull'opera e suUa poesia. Prima che si chiuda con un'affermazione che è anche la miglior dichiarazione di poetica e insieme la più indiretta (e allegramente ironica) delle autoapoteosi: «Sono la più grande ladra che esiste oggi in Italia e forse nel mondo. Daniello Battoli parla di ladroneccio, ma dice che bisogna rubare con avvedimento e riverenza. Rubare, non copiare. A copiare bastano i mediocri». Giovanni Tesio «Sono la più grande ladra. Bisogna rubare con avvedimento e riverenza. Rubare, non copiare. A copiare bastano i mediocri» PRIMA ANTOLOGIA Patrizia Valduga Einaudi pp. 88 L. 14.000