I morti invisibili sul fronte d'Etiopia

I morti invisibili sul fronte d'Etiopia i comunicati padano soltanto di carri armati, elicotteri e aerei nemici abbattuti I morti invisibili sul fronte d'Etiopia Migliaia di vittime tenute segrete dai due eserciti QHATELAJ DAL NOSTRO INVIATO La lunga, mesta colonna dei prigionieri etiopici passa sotto un baldacchino di polvere; il cranio rasato, i piedi scalzi, sfilano silenziosi e torvi. La grande battaglia del Tigre da tre lunghissimi, interminabili giorni ha sussulti accompagnati da vampate di amnchilimento vaste come incendi di foresta. Nei luoghi dove si combatte è come se la montagna avesse accartocciato le spalle, messo a nudo le ossa di granito e di basalto. La battaglia stessa ha caldo nel fiato arido di queste pietre. Qui dove centinaia, forse migliaia di uomini sono falciati dalle mitragliatrici, ti Uberi dalla perniciosa sensazione, così difficile da soffocarsi, che la guerra dopo tutto è una faccenda di splendore e di gloria. Si possiede la terra solo quando si giunge in uno di questi luoghi abbracciati dalla morte. Da una galoppata satanica di macigni guizza il rivolo dei vinti. Sono amhara, oromo, tigrini; c'è tutta l'Etiopia sbriciolata in nazioni grandi e piccole, tenuta in riga da un ufficiale eritreo che impugna una cannetta, come un maestro severo. I soldati di guardia alzano, maliziosi, il volume delle radioline che elencano carri armati distrutti, elicotteri abbattuti. Ma gli altri sembrano schiacciati dal destino, dando l'impressione di essere consumati dall'interno. Mogass Kassà, per esempio, metà diavolo e metà fanciullo come tutti i soldati bambini di tutte le guerre del mondo. Saltella penosamente su una gamba sfregiata da una granata, sorretto da un altro prigioniero. Si siede un attimo nel suo penoso marciare, ha la testa lievemente reclinata, le mani stanche posate sulle cosce, nobilmente composto nello sforzo che segue immense fatiche. «Io sono un amhara, sono di Lalibela. Lo sai? E' bella Lalibela, ci sono grandi chiese, grandi monumenti, E vangeli pieni d'oro, e stoffe sgargianti. In Etiopia si inchinano quando dici che sei nato nella città santa, nella nostra Gerusalemme». Lo hanno strappato alla scuola, un mattino, i reclutatoli di Addis Abeba, avidi di «volontari» da gettare nella fornace del Tigre. L'uomo che per la prima volta entra nel cerchio della guerra deve ricominciare da capo ad imparare il mondo. Egli scopre da un giorno all'altro che le parole non si adattano alle cose e la vita è diversa da quello che i vocaboli indicano e che la consuetudine giornaliera gli ha dato di credere. Egli comincia a pensare, per la prima volta. «Mi hanno detto che gli eritrei sono i diavoli dell'Africa, che vogliono prendersi il Tigre, e poi Gibuti e poi tutta l'Etiopia. Che dovevamo andare ad Asmara e mettere su un nuovo governo. Mi hanno dato un fucile. Sono partito». La sua corsa si è fermata in un intrico mefistofelico di granito che cercava invano di scalare: «E' brutta la guerra e io non voglio combattere, mai più. Ma se torno a casa, in Etiopia, so che dovrò combattere di nuovo». Tolà Bekele è un oromo, sembra uno che ha sempre avuto 50 anni, anche la sua guerra è durata poco: «Gli eritrei occupano terra nostra, ci hanno detto, non vogliono la pace. Bisognava combattere. Mi hanno fatto marciare per 10 ore, giorno e notte. Quanto mi hanno fatto camminare! Quando ci hanno detto di ritirarci eravamo troppo stanchi. Con altri 20 soldati, gente del mio paese, ci siamo nascosti in una valletta, abbiamo aspettato. C'era solo da buttare il fucile e alzare le braccia». Hagos Negussé ha la timidezza selvaggia del cane randagio, una faccia dura, impassibile e fine. Racconta che ha cercato di disertare tre volte, ma sempre le milizie lo hanno ripreso e riportato al fronte in una brigata speciale, di punizione. «Io la guerra non la volevo pro¬ prio fare. Ma il colonnello gridava che lui era dietro di noi, con il mitra, sempre. Che avrebbe ucciso immediatamente il primo che si ritirava. Perché devo fare la guerra? Io sono tigrino, di Adua, sono fratello degli eritrei, quando li saluto mi capiscono, insieme abbiamo sconfitto Menghistu». Chissà se dice la verità, o se, con la povera astuzia della gente in gabbia, ha già costruito un guscio per proteggere il suo incerto futuro di prigioniero. In questa galoppata di macigni, dove lo sguardo non incontra barriere e il passaggio dei Mig è come il rombo della marea crescente, non si combatte, come sembra comodamente credere il mondo, la solita guerricciola africana. Due immensi eserciti sanguinano ferocemente. Ma i bollettini elencano, puntigliosi, aerei abbattuti, carri armati eliminati, autoblindo distrutte. Ma gli uomini, i morti dove sono? Perché non li contano? Chi vince, gli eritrei, li ha già arruolati, con pudore, tra gli eroi e gli eroi non si contano: sono simboli. Questo è un piccolo popolo, 3 milioni di persone, e ogni vita stroncata è una graffiatura penosa e perenne. E chi perde? Chi perde, i morti, li rinnega come la prova fastidiosa della disfatta. Ma bisognerà, prima o poi, che qualcuno, l'Onu, l'Unione Europea, l'Africa, si decida a salire su queste ambe per contare le scarpe al sole, per accorgersi che il silenzio è colpa. A guardare questi prigionieri ti accorgi che gli etiopici sembrano entrati in guerra a capo chino, bestemmiando. Il nazionalismo dei tigrini è imparaticcio, propagandistico: una strategia per rassodare il potere di 4 milioni di persone che controllano i 50 milioni dell'immensa Etiopia mugugnante. Gli eritrei, invece, combattono con la risolutezza dura dei lavoratori decisi a una fatica. Trent'anni di aspra lotta hanno perfezionato la fede, è gente che ha disimparato le lacrime. «C'era una volta al mio paese, a un passo dalla frontiera con il Tigre - racconta un soldato - un italiano che aveva un bel ristorante. Un giorno chiamò quelli che lavoravano per lui e annunciò che se ne andava, che tornava in Italia. Come ultima raccomandazione disse di ricordare sempre che i tigrini erano gente pericolosa. Se venivano con la pancia vuota, avrebbero mangiato senza pagare. Disse proprio così. Se venivano con la pancia piena era peggio, perché avrebbero ucciso. Tutti in Eritrea sanno questa storia. Li abbiamo aiutati a prendere il potere ad Addis Abeba. Il primo ministro che adesso abbaia contro di noi durante la guerriglia veniva a chiedere per favore che gli dessimo da mangiare. Questa guerra finirà quando altri, amhara, oromo, gondarini, non importa, avranno il potere in Etiopia». L'Eritrea vive la guerra con un raccolto pudore, nasconde l'angoscia. Tutti hanno un figlio, un fratello, un uomo o una donna al fronte. Ma tutti aspettano che venga applicato il motto della guerriglia: abbiamo scelto il silenzio. Ma bastano quattro parole su un bollettino, l'annuncio di un pugno di carri armati distrutti per esempio, perché la capitale e anche i paesi più piccoli e sperduti trabocchino in strada, scatenino una polifonia di canti, spari, clacson. Il nazionalismo eritreo appare, nell'usura della politica africana, come una felice eresia, una corposa digressione. Invece di sfruttare il colonialismo come alibi o maledizione lo usa, lo mette a frutto, lo capitalizza nella propria identità. E semmai, gli rimprovera di essere stato povero, di non aver costruito ancora più strade, scuole, fabbriche, piantagioni. «Peccato che ad Adua gli italiani hanno perso - dice ima soldatessa - adesso il Tigre farebbe parte della grande Eritrea e questa guerra non ci sarebbe». Domenico Quirico I prigionieri degli eritrei: ci hanno detto di andare al fronte per fermare un'invasione Una soldatessa «Peccato che a Adua gli italiani abbiano perso, adesso sarebbe già nostra» LA GUERRA 9 DEL TIGRE1 ^ Carri armati eritrei nascosti nella vegetazione sul fronte della guerra con l'Etiopia. Ieri Addis Abeba ha affermato di aver abbattuto un Mig-29 di Asmara

Persone citate: Bekele, Domenico Quirico