Con i nuovi ascari alla battaglia

Con i nuovi ascari alla battaglia Si combatte ormai su tre fronti, quello cruciale è sulle alture tra Macallé e Asmara Con i nuovi ascari alla battaglia Pioggia di fuoco sulle truppe di Addis Abeba ZALAMBESSA DAL NOSTRO INVIATO «'Diamo, 'diamo»: il capitano Hazai ha fretta, striglia i soldati del suo «bataglione»: due parole storpiate, tanto è rimasto dei vecchi ascari ai loro nipoti che combattono una guerra che somiglia a quelle antiche di Baratieri e Badoglio: stessi luoghi, stessi nemici, stesso dolore. Hazai è un tipo pietroso, tutto occhi e baffi, arso dal sole e prosciugato dai venti, che a forza di vivere in mezzo al pietrisco si è fatto una pelle che pare crosta di roccia. In Africa, per capire chi vince, bisogna guardare le scarpe. Indossano anfibi neri, tutto stringhe e lucido? Sono quelli che perdono. Erano le scarpe degli inutili soldatini di Mobutu, dei briganteschi baschi di Barre, delle guardie rosse di Menghistu. Gente che al primo incrocio getta via il fucile e scappa in auto. Hazai, invece, per marciare, gli stivali li toglie e indossa quelle scarpette di plastica che hanno messo le ali ai piedi delle rivoluzioni d'Africa. S'imbocca la valle di Zalambessa (120 chilometri da Asmara), la vita normale cessa, non v'è più che la guerra. Un grande prodigioso silenzio. Non compri più il caffè e il miele come un tempo: tutto è svuotato, chiuso, spettrale. Si va verso il combattimento, verso il rombo dei cannoni. Ma già i contadini hanno ripreso il lavoro: riappaiono gli aratri adamitici con cui vecchi drappeggiati sciamma graffiano la terra dura per la siccità, le donne lasciano le case con la dolente timidezza di chi esce all'aperto dopo l'uragano, solleva la zappa, riprende la lotta millenaria con madreterra. Il paesaggio di sassi durante il giorno si incrudisce, avvampa, diventa aspro, polveroso. Il sole qui non sorge, irrompe. Giogaie, ambe, picchi si addossano senza fine. Perfino la strada a mi certo punto, tira il fiato, rinuncia all'inseguimento. I camion dei rifornimenti marciano verso la battaglia con timidezza di bestiame condotto per la cavezza, sputano dai tubi gas nerissimi. Poi anche loro si fermano e restano, appisolati nella polvere, sotto sicomori muscolosi. Ed ecco sfilano sulle piste, righe di mimetizzate formiche, i soldati eritrei posando al suolo scarpa dopo scarpa, secondo l'uso delle guerre all'antica nelle quali la prima virtù del soldato era quella di saper viaggiare sulle gambe. Vanno sulle piste le fanterie, fardello sulle spalle, mitra sulle spalle, gavetta, telo mimetico, badile e così di seguito. Molti portano il kalashnikov ma alla rovescia, cioè impugnato dalla canna. Solo qui vedi trattare il fucile con una grazia così amabile. Pare che lo sforzo di due dita basti loro per tenere uno strumento che non ha certo il peso di una piuma. Sono tutti ragazzi, i pochi anziani arruolati assomigliano a rattoppi fatti in fretta e furia negli strappi delle brigate. Marciano verso la prima linea con un vocio allegro da scolaresche. Nelle soste, con il peso dello zaino, pare che depositino anche la stanchezza. Gli chiedi se non sono stufi di combattere. Prendono l'aria di tanti scolari invecchiati di fronte a un teorema insolubile. Quando un popolo come questo esce da una rivoluzione (e quanto lunga, e pesante: trent'anni!) gli uomini spossati non hanno più che una volontà. Riposare. Invece eccoli di nuovo qua, alle prese con il vecchio nemico, gli etiopici. Ma l'attacco dei tigrini, ostili fratelli di oltrefrontiera, ha prodotto uno scarto. I popoli sentono chiaramente quando sono sulla via dritta e allora sono lieti e invincibih. Tutto diventa semplice e facile, anche combattere. Nella certezza che bisogna farlo, gli eritrei sono tutti concordi e si placano gli attriti, i dispetti, le gelosie, le invide tra ceti, religioni e tribù che già cominciavano a roderli. Il nazionalismo è davvero l'unica consolazione dei poveri. A un certo punto la montagna avanza con tanta insolenza da costringere la valle a scansarsi. La battaglia, come tutte quelle moderne, è invisibile: è solo un frastuono tonante, un formarsi e un dissolversi di fumo, un'apoteosi di rombi e di boati. I cannoni sparano con pacatezza, solennemente. I mortai invece hanno una voce catarrosa. I grossi calibri etiopici tirano lungo. GU eritrei rispondono colpo su colpo: come tutti gli artiglieri del mondo sono soldati impassibili, attenti come un matematico davanti a un problema. In prima linea gli uomini non si vedono più, sono diventati troppo piccoli. Gli eritrei, contadini tenaci, hanno appoggiato il fucile e ripreso la zappa. Scavano da mesi trincee, camminamenti, alzano muri di pietra nei punti più esposti, raspano | gallerie e termitai formidabili come nella prima guerra mondiale. Una cosa è certa nella ridda dei comunicati contrapposti: gli eritrei stanno in alto, occupano tutte le alture sulla strada che porta da Asmara a Macallé, l'antica via imperiale. GU etiopici, penosamente, li guardano da sotto in su invidiando le loro trincee formidabili. E' un bel guaio per il Cadorna etiopico trovare il modo per risalire senza svenarsi questi dirupi che sembrano la replica africana del Carso. Ieri hanno provato anche a Badmé e Tsoronà, scate- nando così carri armati ed aviazione su tre fronti: hanno di nuovo perso. Ma non vi è solo una posizione da prendere, ce ne sono tante, incastonate nei quattrocento chilometri di fronte. E per ognuna è una battaglia con le sue sorprese, le sue finte, le sue manovre. Il capitano Hazai si coccola con lo sguardo le trincee. I camminamenti più avanzati sbiscia- no fino a valle, di giorno restano vuoti, ma la notte frusciano di commandos e di agguati. Il piano degli etiopici era perfetto. Come perfetti sono tutti i piani prima che falliscano. Un colpo di maglio ben assestato, pensavano, e gli eritrei sarebbero crollati. I Prigionieri già avevano in tasca l'elenco delle automobili e degli alloggi da requisire ad Asmara. Dalla ridotta più avanzata, ben protetta da una mitragliatrice antiaerea, si vede bene la valle della morte. Solo una piccola chiesa copta, brillante nel suo verde bottiglia, è rimasta intatta. Per fortuna, qui, Dio non è stato arruolato da nessuno. Ma il resto, tutto, è bruciato dai colpi. Le euforbie mostrano le braccia mozzate, perfino l'erba che verdeggiava povera e grama in attesa delle piogge è annerita. Gli etiopici sono caduti a centinaia, a migliaia, su quell'erta aspra. Il capitano sorride: sono come una belva che non può più mordere, ma che non si può ancora prendere. E' stretta nella grande battuta, ridotta quasi all'impotenza ma tira ancora zampate. Per esempio con gli aerei, che sono valsi ad Addis Abeba un rabbuffo dagli Usa, mediatori con l'Italia della sospensione dei raid. Il rifugio delle soldatesse è proprio tra le tombe quiete del piccolo cimitero copto. Tutto è lindo, fresco, avvolto da stuoie. Nei lunghi anni della guerra di liberazione gli eritrei hanno nascosto intere città sotto terra: la loro è un'arte antica. Sul tavolo campeggia una crema di bellezza e una soldatessa, quasi, si scusa: «Durante la rivoluzione non era permesso, imbellettarsi era controrivoluzionario. Adesso i tempi sono diversi». Solo la guerra è sempre uguale. Domenico Quirico MAR aswiàraL WL BADME TAKAHE ZALAMBESSA vedono più, sono diventati troppo piccoli. Gli eritrei, contadini tenaci, hanno appoggiato il fucile e ripreso la zappa. Scavano da mesi trincee, camminamenti, alzano muri di pietra nei punti più esposti, raspano | gallerie e termitai formidabili come nella prima guerra mondiale. Una cosa è ll ridd di GONDER ETIOPIA H DESE addis abeba; HARER LA GUERRA DEL TIGRE1 Una colonna di soldati etiopici a Zalambessa, uno dei tre fronti sui quali si è combattuto ieri

Persone citate: Badoglio, Barre, Cadorna, Domenico Quirico, Prigionieri