«Vìa, via, kaputt... E fu una mattanza»

«Vìa, via, kaputt... E fu una mattanza» Alessandro Portelli ha raccolto in un libro le voci e le memorie di duecento testimoni sulle Fosse Ardeatine «Vìa, via, kaputt... E fu una mattanza» Quell'esecuzione: fotogrammi di crudeltà, cinismo, paura 1* ||ECCIDIO delle Fosse Ardeatine non fu il peggiore e / nemmeno il più sanguinario tra quelli commessi dai nazisti in Italia e in Europa. Ma è stato il più «metroI I politano», nel senso del più eterogeneo nella compositi I zione delle vittime: ebrei, oppositori politici, gente comune, operai, contadini, intellettuali, professionisti. Giovani e vecchi. Quasi uno spaccato completo della popolazione di Roma in quei terribili mesi di occupazione tedesca. E per questo il più simbolico. Un eccidio su cui si è accumulata e depositata una memoria composita e diffusa, sopita, ma non riscattata, come ha dimostrato la partecipazione popolare - talvolta rabbiosa - al processo Priebke. Alessandro Portelli, 57 anni, ordinario di letteratura angloamericana ah'univérsità di Roma, ha lavorato due anni per recuperare, raccogliere e catalogare quella memoria. Duecento i «testimoni» ascoltati. Famigliari delle vittime; tutti i componenti del commando Gap che compì l'attentato alle SS in via Rasella e che innescò la rappresaglia nazista; membri della Resistenza romana; gente che sapeva, che aveva visto, sentito e conservava qualcosa da raccontare; giovanissimi - anche - nipoti delle vittime che dell'eccidio si portavano dentro soltanto un'eredità di frammenti di memoria. Gente di sinistra e di destra. Il lavoro di Portelli {L'ordine è già stato eseguito - Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria) sarà in libreria dal 2 marzo in un libro dell'editore Donzelli. E' un libro intenso e vivissimo. Per la qualità delle testimonianze e per la scabrosità delle parole scritte che riflettono timbri e colori della lingua parlata. Quasi un catalogo di storia orale, secondo un modello che Portelli ci dice di aver mutuato dalla cultura anglosassone più che dalla storiografia italiana, incline verso il documento scritto e sospettosa sull'attendibilità della testimonianza e sul valore della rappresentazione individuale dell'evento. Il risultato di questo lavoro, ci dice l'autore, è che non vi sono rivelazioni né scoop: «Niente che non si sapesse, ma ciò che si è sempre fatto finta di non sapere». «Cose» di cui si parlava, ma che non si sono mai lette. Non dunque una storia alternativa, ma una storia che completa, che aggiunge, che dà alla ricostruzione documentaria carne, sangue, lacrime, urla, odori e suoni. Del libro anticipiamo alcune testimonianze su «La strage». Cesare Martinetti il Ecosi siamo Irrivati. M'hanno vista vjstita de nero, perché - alljra se mettevamo il nero, fa be', l'ho portato quattròcinque anni. E allora, ce stavano djUe amiche mie [di] quando stavo a paese - "Ada, com'è, stai vestita e nero, che t'è successo...". E glielno detto, "Umberto, purtroppo nm c'è più". E quando so' arrivati a casa, quello ch'è successo a cas - papà, mamma son rimasti. Die "ma come, che è successo?". Dice 'che è successo?". "E' successo < >sì; è successo. Così". E quindi anc s lì è continuata la, la storia. Poi < so' stata due o tre mesi a casa, po so' ritornata a Roma perché dove\ > cerca' de fare qualcosa perché no potevo vivere, con che vivevo? cor a pensione che non c'era?» (Ada Pi] lotti, aveva allora 23 anni. Alle A ìeatine ha perso il marito e tre pa snti) il 25 luaiio - morda Imo Memi - i carcerati [di Regim Coeli] avevano rotto le gelosie dell< selle»: un gesto simbolico della lib nazione dal fascismo, ma anche 1 spiraglio attraverso cui, il 24 ma io, potrà intravedere il prelevami ito dei detenuti destinati alle Fosì Ardeatine, primo -gèsto dei te éschi entrando nel carcere, ricordi incora Pellegrini, è di chiudere g spioncini delle celle: «Tutti quanj 1 gendarmi a chiudere tutti quatti gli sportelli» (Roberto Guzzo). La scena della srage è l'inverso della scena di viaRasella: lì, uno spazio pubblico done sembra che ci fossero tutti, che fatti abbiano visto, e un proliferar frenetico di testimonianze e raconti; da qui in avanti, invece, spai chiusi, carceri, caverne, dove nessmo può vedere e nessuno può entraB, e chi torna ha tutto l'interesse a nascondere e a cancellare. Restani solo i racconti di chi intravede c nascosto cose che non dovrebbe wdere: «Dal finestrino posso segare abbastanza», scrive Enrica Fihpini Lera; Eleonora Lavagnino vàe i tedeschi che scortano i prigioniri «attraverso lo spiraglio che serwa da finestra della cella». Davanti a Regina Cefi, in un'increspatura della telajiel tendone che copre il camion, Bsetta Stame intuisce forse l'ultimo addio di suo padre: «Si era in atesa e quindi ho cominciato a diamare "Papà, papà...". Ad un cefo punto al terzo camion - guardavtfisso 'sti camion - [dal] tendone ali parte superiore io ho visto un mo$mento di testa... un movimento pajse - non è la mia fantasia, io l'ho vjto un movimento, non lo posso rimostrare ma io sono convinta, cela, che papà ha riconosciuto la nja voce e non ha potuto rispondereperché ai lati c'erano i tedeschi, saùti sulla sponda, però lui ha fatto ui cenno con la testa, ha fatto muofere il tendone». Le SS irrompono Coeli; Eleonora «con carte in m in cella, aprire 1 nomi di uomini. mo ad essere c maggiore Talam quasi sotto di giacchetta, vole aere la giacchet (Roberto Guzzo) le due a Regina ivagnino li vede i, andare di cella ione e gridare i ìonieri». «A prilato è stato il ira a pianterreno di là esce senza tornare a prenma no, niente...» nessuno di que¬ sti fu permesso p prendere i loro vestiti, così io p isai che essi non lasciassero la p gione» (Eleonora Lavagnino): l'im cessione è ancora che li portino a vorare. Continua Guzzo: «Bicorni ia su e giù, su e giù, non finiva : ai; passano dalla mia cella; apro» "Gizzi Alberto"». E lui: «No Gizzi Uberto. Io Guzzo Roberto». Il tede :o se ne va. Luigi Pierantc i, medico detenuto, è in inferro ia e sta facendo un'iniezione a u i donna; lo portano via senza las arto finire; Lavagnino cerca di urlargli, ma viene «spinta verso la lia cella dai tedeschi, con le 1 o usuali parole: "Kamm, kammiw, los"». Si sentono chiamare Palucci Pietro, Raffaele Milano, inserico Fontana, Romeo Rodrigufe (la moglie Marcella Rodriguezlnche lei in prigio- ne, se lo vede passare davanti: «Mi disse che lo portavano a lavorare, ma io capii di che si trattava»). Remo Pellegrini vede passare Alberto Fantacone: «Andava in barella, perché gli mancava la rotula in quanto era stato ferito in Albania, e non poteva camminare senza un grande bastone». Capisce che non è possibile che li portino a lavorare. «Allora mi son messo a gridare. "Assassini!". In quel momento ho capito che li portavano a essere ammazzati, era una mattanza, non una rappresaglia. Allora tutto il carcere ha risuonato: "Assassini!". Il carcere diceva: "Assassini!"». «Mi sforzai di guardare attraverso lo spioncino, e vidi che effettivamente al pian terreno erano stati riuniti molti detenuti», scrive Solinas. «Il gruppo dei prigionieri scelti dai tedeschi cresceva di minuto in minuto. I tedeschi quindi separarono i prigionieri ebrei dagli ariani», e fanno l'appello dei due gruppi: i nomi chiamati sono 192 (Lavagnino). Nel gruppo si distingue il camice bianco di Pierantoni e «la sua figura di asceta, con il viso affinato al quale la corta barba bionda conferiva una strana dolcezza». Il fantomatico Albert Giz non è stato trovato, dovrebbe mancare un nome, sappiamo quanto siano importanti i numeri in questo momento, qualcun altro andrà a morire al suo posto. Eleonora Lavagnino riferisce: «Riconobbi gli uomini fra i due gruppi di prigionieri. Il più vecchio dei prigionieri secondo me aveva circa 80 anni, il più giovane circa 14». Gabriella Polii; «lo aedo che da quando sono partiti da Regina Coeli è iniziato il nulla. Questa è un'altra cosa che mi tortura, pensare che mio padre in quel momento sia diventato un nulla, era un numero - quello era mio padre». Rosetta Stame: «Era nel primo pomeriggio, partivano. Ho visto io tre camion, e c'era gente che aspettava perché noi dovevamo avere il secondo coUoquio. Allora questi camion erano tipo militari o dei macellai, telati, coperti sopra ed ai lati... la gente che era lì in attesa ha cominciato ognuno a chiamare il proprio caro; ma questi erano pazzi con i mitra che venivano avanti, "Via, via... kaputt", erano pazzi...». Verso le tre partono i primi automezzi da via Tasso. «Insieme con numerosi altri membri del IH reparto io uscii dalla Villa Massimo in via Boiardo dove io vidi un autocarro chiuso che dopo aver osservato, mi accorsi conteneva civili itahani. 10 esaminai tale automezzo che fu poi condotto alle Fosse Ardeatine, il luogo scelto per l'esecuzione della rappresaglia. Mentre i prigionieri si scambiano sguardi muti, un pohziotto dice a un altro: «Di costoro si farà del letame». Un sottufficiale racconta 9 viaggio: «Avevo l'incarico di trasportare con i miei due autocarri condannati alla fucilazione da via Tasso fino al luogo dell'esecuzione. I prigionieri avevano le mani legate dietro la schiena; anche i piedi erano legati in modo che potevano nuoversi soltanto spostandosi o con brevissimi passi od a salti. Furono alzati di peso e gettati sui camion come bagagh. Molti di loro avevano sul viso i segni delle sevizie sofferte». Verso le 15,30 Nicola D'Annibale 11 vede arrivare sull'Ardeatina. Mettono due sentinelle sulla strada a bloccare veicoli e pedoni a monte e a valle delle cave. In un prato di fronte, Celeste Rasa, 74 anni, sfollata da Gaeta, fa erba per i conigli; si avvicina troppo e mia delle sentinelle tedesche le spara - è vecchia e disarmata, ma può vedere - e lei muore. D'Annibale vede i camion fare manovra e disporsi col retro verso l'entrata delle cave: «Questo fatto mi taglio la visione dell'entrata nettamente e, di conseguenza, mi fu impossibile vedere gli occupanti discendere dal veicolo». Kupplll non ncorda da comandò il primo plotone; lui comandò il secondo. «Ho osservato - continua - che quelli che scendevano dal camion venivano cancellati da una Usta. La lista era tenuta da Priebke. Mi venne riferito che Priebke fece sempre questo lavoro e che si fece sostituire per poco tempo». Testimonia Karl Hass: «Lì c'era Priebke con la copia o il doppione della Usta, faceva scendere la gente e cancellava quelli che erano scesi... Dopo qualche trasporto scendeva un detenuto che non risultava nell'elenco di Prie¬ bke». Tunath non sa dare spiegazioni; così Kappler disse: «Cosa faccio di questi cinque che hanno visto tutto?». La decisione è: uccidere anche loro. Al processo, Kappler aveva detto di averlo saputo solo la mattina dopo. Nel comunicato ufficiale si continuerà a parlare solo di 320. I familiari degli uccisi continueranno ad arrovellarsi: «E in mezzo a quei 5 che j'hanno dato de più, lì c'è stato mio marito perché lui stava all'infermeria» (Fortunata Tedesco). In lealtà, c'è almeno una persona che racconta di essere tornata da quel viaggio: Joseph Raider, disertore austriaco, che era stato ripreso, scambiato per una spia alleata, rinchiuso a via Tasso e caricato sui camion per le Ardeatine legato a don Pappagallo. Quando scende dal camion, «un gruppo di prigionieri arrivato prima stava entrando in una spelonca, seguito da un secondo, e così via... La spelonca doveva essere già piena, perché a un tratto ci fu un ingorgo». Attorno a don Pappagallo si forma un gruppo di persone: il colonnello Rampulla, il generale Simoni, l'avvocato Martini, il carabiniere Forti, e «un certo Montezemolo», pesto e gonfio, «il cui aspetto stanco ma tuttavia marziale ed eroico non poteva nascondere le passate sofferenze». Una voce chiede a don Pietro di benedirli. «Tutti avevano i capelli irti e molti erano incanutiti nel frangente per le perdute speranze, assabti dal terrore o colti da improvvisa pazzia». i a cui aggrapparsi. «Mio fratello (Luigi Pierantoni) era religiosissimo, pensi che gli abbiamo trovato in tasca il rosario, perché lui la sera quando stava in prigione diceva il rosario. E ci consoliamo pensando che forse la fede l'abbia aiutato in quei momenti, in quelle ore perché non so' stati momenti, so' state ore». (Caterina Pierantoni). Nella sua autodifesa, tutta imperniata sulla umanitaria deheatezza con cui organizzò il massacro, Kappler racconta di essersi posto con i suoi collaboratori il problema dei conforti religiosi alle vittime. «Mi venne risposto che in caso di esecuzione le vittime avrebbero cercato di parlare il più possibile e preferii così di non chiamare alcun cappellano anziché dover costringere le vittime di essere separate dal cappellano dopo qualche istante... quando il cappellano si mette in contatto con questi esseri umani, è molto duro farlo allontanare dopo pochi secondi. Ho preferito non chiamarlo...». Dal pubblico, qualcuno grida: «Quanti riguardi!». A cliiamare un rabbino non ci pensa proprio. Un prete comunque c'era. Una SS itabana che partecipò al massacro (già: c'erano anche loro) dirà più tardi a un cardinale che a don Pappagallo era stato offerto di essere escluso dalla Usta, e che aveva rifiutato. Racconta Raider, «in quel momento accadde qualche cosa di sovrumano: deve aver operato la mano di Dio perché don Pietro riuscì a Liberarsi dai vincoli e pronunciò una preghiera, impartendo a tutti la sua benedizione». Hello spelonca entrano altri. Erich Priebke: «Io entrai nella cava col secondo e terzo gruppo e uccisi un uomo con un mitra itahano. Verso la fine io ne uccisi un altro con lo stesso mitra». Gunter Amonn: «Io entrai nelle cave e procedetti lungo i tunnel. Quando io raggiunsi la congiunzione con un altro tunnel vidi un mucchio di corpi apparentemente morti giacenti uno su l'altro per terra. Tutti avevano le mani legate dietro la schiena ed erano bocconi. Vi erano quattro o cinque tedeschi accanto all'ammasso dei corpi». E' buio, «l'iUuminazione era talmente tenue da non poter vedere» (Kappler), solo qualche candela per vedere i bersagU. Si procede secondo le istruzioni di Kappler, sempre sol¬ lecito verso le sue vittime: «Ordinai che tutti gli appartenenti al comando dovevano sparare almeno una volta e diedi istruzioni a Schutz circa il modo di eseguire l'esecuzione. Il colpo al cervello fu ordinato da me. Per evitare il deterioramento dei cadaveri e per riguardo al senso fisico e psichico della vittima diedi ordine di non appoggiare l'arma e che nonostante questo il colpo venisse sparato dalla più vicina distanza possibile». Un sottufficiale entra nella cava «per curiosità», vede uccidere «circa sessanta ostaggi» e viene sopraffatto dalla nausea: «Al ritorno, alcuni soldati delle SS mi presero in giro per questa mia "debolezza", ed uno si vantò con me e con gli altri di aver "bquidato" con lo stesso sistema circa settemila persone, nei corso della sua carriera!». Non tutti possono vantare la stessa esperienza. Gunter Amonn non ce la fa: «Pochi minuti dopo io vidi altri cinque civili scortati lungo i tunnel da cinque tedeschi. Questi civili avevano anche loro le mani legate dietro la schiena, essi erano costretti ad inginocchiarsi accanto al mucchio dei corpi. A questo punto il capitano Clemens, che era presente, mi ordinò di pormi dietro ad uno dei prigionieri per sparargli. Quattro altri tedeschi si misero dietro gli altri quattro prigionieri. Il capitano Clemens ci diede quindi l'ordine di alzare i nostri mitra e di sparare sui prigionieri, Io alzai il mio mitra ma ero troppo spaventato di far fuoco. Gli altri quattro tedeschi spararono un colpo ognuno alla nuca degli altri quattro prigionieri che caddero in avanti. Vedendo lo stato in cui mi trovavo un altro tedesco mi spinse via e sparò sul prigioniero sul quale avrei dovuto sparare io». Tornando alle Fosse, Kappler trova che i plotoni sono «in istato di agitazione ed erano corse delle parole come queste: lui impartisce gli ordini e non li esegue». Il tenente Wetjen aveva rifiutato di sparare. Paternamente, cingendogb le spalle, Kappler lo aiuta con l'esempio a fare il suo dovere. E' il culmine di una storia paradossale di buoni sentimenti: la canna non appoggiata per riguardo al corpo e alla psiche, il prete non chiamato per non doverlo interrompere, il giovane subalterno aiutato dal capo comprensivo, un massacro in fondo umanitario. Qualcuno sbagliò il colpo, e fu peggio, perché non tutti morirono subito. Su uno dei corpi furono trovati ben quattro fori di proiettile: si vede che non riusciva a morire. Per trentanove degb uccisi non fu possibile ritrovare la testa, esplosa per il colpo e per la penetrazione dei gas di esplosione nella scatola cranica. Su alcuni di loro, tuttavia, furono riscontrate solo lesioni laterab e relativamente poco profonde. «In costoro - scrive il medico Ascarelli non può escludersi lo strazio di una sicura morte attesa vicino ad un compagno già morto!». Paradossalmente, quelli i cui corpi furono ritrovati in condizioni migliori soffrirono di più. L'unico conforto è che lo sparo così ravvicinato può aver provocato uno choc e una perdita di coscienza tale che «rese impossibile al misero di vedere la crudele scena». «Dato che le salme furono rinvenute l'una vicino all'altra e dati i molteplici strati nei quab esse erano ammassate - conclude Ascarelli è evidente che man mano che i morituri giungevano dovevano essere fatti salire dai carnefici sui corpi dei compagni già uccisi». Kappler escluderà, ancora una volta attribuendosi sentimenti umanitari, che le cose siano andate così: «Più tardi seppi che dopo la fucilazione le salme furono rimosse dato che l'ingresso delle cave doveva essere chiuso e le truppe del genio avevano preparato la minatura... Attraverso la minatura, alle salme potevano essere apportate mutilazioni e per questo furono rimosse e collocate l'una sull'altra... Durante la mia presenza non mi accorsi di questo trasporto». E' poco plausibile che un'operazione su questa scala sia stata condotta senza che se ne accorgesse chi dava gli ordini; e ha poco senso questo rispetto verso salme destinate a venir occultate, e alle quali avevano già fatto esplodere il cranio. La posizione dei corpi (molti proni con le gambe piegate sull'addome, come si erano riversati subito dopo il colpo) e la loro relazione (vittime ancora legate fra loro, familiari vicini gli uni agb altri) sembrano escludere che siano stati spostati. Probabilmente, furono davvero fucilati inginocchiati sui corpi dei loro compagni. «Oltre al caso Wetjen non vi furono casi di demoralizzazione generale. Gli uomini stavano sotto il peso di una grande depressione spirituale... ofrii ai miei uomini una bottiglia di cognac ed ho già precisato questo fatto di mia iniziativa per dimostrare che gb uomini soffrivano della depressione che vivevo anch'io» (Kappler). Cinquantanni dopo, l'imputato Erich Priebke metterà nel suo memoriale una frase che aveva dimenticato di pronunciare nelle testimonianze rese subito dopo i fatti: «Come ho già detto molte volte (nelle interviste dopo l'estradizione), la partecipazione a questa terribile esecuzione era per me una tragedia personale». Nicola D'Annibale: «Il 28 marzo 1944 ero nuovamente a lavorare nello stesso campo, quando vidi due autoveicoli militari germanici avvicinarsi all'entrata delle cave e fermarsi. Diversi soldati scesero. Uno dei veicob fu poi guidato per un viottolo conducente alla sommità delle cave Ardeatine dove si fermò. Vidi quindi diversi soldati cominciare a scavare larghe buche nel terreno (nello strato sovrastante le cave). Essi finirono verso le 17,30. Li vidi quindi porre quello che sembrava un barile di sostanza esplosiva per ogni buca e poi riempire le buche. Essi si ritirarono poi a qualche distanza : io udii quindi il rumore di due esplosioni terrificanti; Vidi terra e fumo alzarsi nel luogo dell'esplosione. I tedeschi lasciarono poi la località». La camera mortuaria naturale si chiude; nessuno ha visto, nessuno deve vedere. L'ordine è stato eseguito. Alessandro Portelli Cerano ebrei, operai oppositori politici contadini Cerano vecchi egiwani: quasi uno spaccato di Roma Fu (eccidio più «metropolitano» compiutòdai nazisti Un sottufficiale: «Anche ipiedi erano legati in modo che iprigionieri potevano muoversi soltanto spostandosi o con brevissimi passi Furono alzati dipeso e gettati sui camion» «Il tenente Wetjen aveva rifiutato di sparare, Cingendogli le spalle Kappler lo aiuta con l'esempio a fare il suo dovere» I corpi straziati di alcune delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine. Soltanto dopo l'arrivo degli Alleati fu possibile riportarli alla luce poiché le cave furono minate dai tedeschi subito dopo l'eccidio

Luoghi citati: Albania, Europa, Gaeta, Italia, Palucci Pietro, Roma