Viaggio tra i bersagli dei raid di Giuseppe Zaccaria

Viaggio tra i bersagli dei raid ASPETTANDO Viaggio tra i bersagli dei raid Fabbriche di morte e radar tra i condomini MBARIC ADELEINE Albright vola a Rambouillet, Milan Milutinovic vola a Belgrado. Volano nell'etere indiscrezioni, commenti, cifre, mappe dell'intervento: freccette che s'intersecano, punti neri che neh'animazione televisiva illuminano piccole, rapide fiammate. Nello stesso modo potrebbe scomparire quésto banco di verdura che oggi vende solo pomodori flaccidi (in serbo si chiamano «paradais») e lunghe carote rinsecchite. L'uomo che lo gestisce, Zoran, ha l'aria di chi air arrivo di una bomba protenderebbe corpo e braccia a difesa dei suoi ortaggi. Questa è la desolata piazza di Baric, povera cittadina affacciata sulla Sava a cinquanta chilometri da Belgrado, e qui dietro, a meno di trecento metri, ci sono i capannoni della «Prva Iskra», grande stabilimento chimico. In termini tecnici il verduraio potrebbe considerarsi spia: «Tutti sappiamo che la fabbrica produce anche forniture per l'esercito - dichiara - e che la Nato potrebbe bombardarla anche domani, ma che posso fare? Io sto in piazza e vendo quel che trovo». La Bbc ha appena fatto sapere che 421 aerei della Nato sono pronti all'azione - chissà perché quel velivolo in più: sarà fondamentale per gli equilibri stategici. Eppure se per caso a Rambouillet oggi non ci si mettesse d'accordo, il quattrocentoventunesimo aereo potrebbe segnare la catastrofe per Zoran e molti altri come lui, per il mercato di Baric, per un'area di molti chilometri intorno. La «Prva Iskra» produce fra l'altro cloro e fosgene, un'esplosione libererebbe una nube tossica in grado di inquinare il fiume Sava e le correnti che spingono i fumi in direzione di Belgrado. Meglio non provarsi a immaginare un simile scenario. Eppure l'idea di considerare le cose dal basso non sembra così peregrina. Non è forse del tutto stupido il tentare di porsi nella condizione di chi, a partire dalle quindici di oggi, potrebbe mettersi a scrutare il cielo nell'attesa che una bomba gli cada in testa. Si tratta - credetelo - di gente normale. Un po' più povera di noi, vestita un po' peggio, magari meno avvezza al ebreo dei «media». Persone che se ascoltano la tv che annuncia catastrofi, ci credono davvero. Questa massiccia casalinga di Batajnica, per esempio: avrà quarant'anni, o forse sessanta, difficile stabilirlo a queste latitudini e nelle condizioni in cui vivono le donne serbe. Ha in mano due buste di plastica ancora semivuote, tenta un rifornimento d'emergenza prima che sulla centrale radar a due passi da casa possa abbattersi il martello della Nato. «So che lì dietro c'è la più grande centrale radar di Jugoslavia, sono anni che ce ne lamentiamo. Con quella menata dei recinti e del segreto militare gli autobus non possono passare intorno agli impianti, per tornare a casa devo fare ogni volta un giro lunghissimo...». Ma se bombardassero, signora, lei cosa farebbe? «E cosa posso fare? Sto a casa, abbraccio i miei bambini e "boge" pomozi, che Dio ci aiuti». In questo sobborgo, intorno alle vecchie case serbe il realismo socialista ha fatto sorgere palazzoni a sei piani che circondano l'area militare come il palcoscenico è protetto dalle quinte. Tutti sanno che se mai mi attacco aereo dovesse tentare ^accecamento» dei radar, i missili dovrebbero muoversi con l'abilità di un campione di slalom per fare a meno di provocare vittime civili. Fra i civili di Batajnica c'è anche Vojslav Seselj, il «duce» dei radicali serbi abita qui. Il suo appartamento sarà fra i «target» Nato? Vista da qui, dal basso, dalla condizione di chi non ha rifugi verso cui correre o santi cui votarsi, l'idea dei raid che calano da Occidente assume davvero un sapore diverso. Una tragedia, sì, ma non inaspettata: quasi una catastrofe naturale, come un terremoto vissuto da chi sa di trovarsi da sempre in area sismica. Il ripetersi di una condanna della storia. Qualcosa che si sapeva potesse accadere, che seminerà terrore e dolore ma da cui si uscirà in qualche maniera, più o meno rassegnati. Questa è la gente che noi minacciamo di bombardare. A Pancevo, una sessantina di clùlome- tri più a Sud, lungo il corso del Danubio la vita delle persone comuni ieri proseguiva stanca anche lungo le muraglie della «Petrohenja», grande raffineria confinante con la <(Azotara Nitrogen», gruppo chimico che se non altro dichiara immediatamente la propria ragion d'essere. Un solo missile - anzi, un cerino - e i gas contenuti in queste enormi cisterne scrostate annienterebbero una regione. La gente che vive qui intorno lo sa benissimo. Da noi, e forse in qualsiasi altro Paese la decima parte dell'allarme che qui sembra lecito avrebbe provocato panico, grida, allarmi, migrazioni. In Serbia non accade. Un po' perché moltissima gente non avrebbe dove andare, molto perché il succedersi degli ultimatum ha provocato una sorta di cupa, generale rassegnazione che ormai vira verso il «tanto peggio tanto meglio». Se davvero pensiamo di bombardare questo popolo sarà meglio tenere a mente la frase che la casalinga di Batajnica ha lanciato, senza emozione, prima di lanciarsi verso il mercato alla ricerca di rifornimenti: «Se i miei figli non devono avere futuro, allora tanto vale morire tutti». Giuseppe Zaccaria Un solo missile sulla «Azotara Nitrogen» di Pancevo potrebbe annientare l'intera regione A Baric la «Prva Iskra» produce cloro e fosgene Uno scoppio libererebbe una nube letale che avvelenerebbe Belgrado Soldati tedeschi salgono su un elicottero durante un'esercitazione a Tetovo, in Macedonia

Persone citate: Albright, Baric, Milan Milutinovic, Vojslav Seselj

Luoghi citati: Belgrado, Jugoslavia, Macedonia, Pancevo, Rambouillet, Serbia