LE CITTA' DEL NOVECENTO

LE CITTA' DEL NOVECENTO LE CITTA' DEL NOVECENTO Architetti a confronto: Veredità di Aldo Rossi, la controstoria di Zeri MILANO ICOMPARE e inquieta ancora, lo incensano e lo demonizzano. Aldo Ressi ha sempre suscitato passioni opposte con le sue idee di edifici e di città alla Sironi e alla De Chirico, gli spazi vasti e assorti, le linee e le pietre che sembrano emergere da un passato profondo. Disegnava fari e torri come caffettiere, e caffettiere come fari. Inseguiva coni, cubi, cilindri. Come un Morandi dell'architettura, ripeteva ossessivamente pochi, pochissimi oggetti e simboli. Suoi tic stilistici dissepolti dal repertorio classico sono copiati e inflazionati: in cima a molti nuovi palazzi spuntano ancor oggi ad esempio timpani colorati, triangoli con piccoli rosoni al centro. «Postmoderno», gli strillavano a mo' d'accusa. «Impossibile, non sono mai stato moderno», ribatteva lui. Il milanese Aldo Rossi se n'è andato nel '97 a 66 anni e riappare adesso con una nuova edizione di un libro folgorante e dolente, la sua Autobiografìa scientifica (Pratiche Editrice, pp. 121, L. 20.000). Uscì presso il Mit a Harvard nell'81, da noi nel '90. E' la storia di un'intera cultura ostile al narcisismo a al consumismo progettuale, al raptus edonistico. C'è un passo che dice molto, nell'Autobiografia: «Detestavo il disordine affrettato che si esprime come indifferenza aU'ordine, una specie di ottusità morale, di benessere soddisfatto, di dimenticanza». Il marxista atipico Aldo Rossi - un volto da ragazzino ironico, occhi dalle palpebre pesanti, tristi, capelli corti e spettinati - ha scritto qui il suo manifesto. «A cosa avrei potuto aspirare nel mio mestiere?», si chiedeva. E si rispondeva: «A poche cose, visto che le grandi erano storicamente precluse». Un uomo amaro, drammatico. Viveva l'architettura come argine, come forma di sopravvivenza. Ed ecco i momenti che più gli rivelano la sua sorte, vere e proprie epifanie. La nebbia che entra nella basilica di Sant'Andrea a Mantova è il tempo, il sudore freddo della storia che attenta ai muri e alle forme: queste devono dunque essere classiche, tali da permanere. Salire su all'interno dell'enorme San Cartone di Arona e dall'occhio guardar fuori, come su un palcoscenico all'esterno: nasce l'idea dell'edificio come statua cava, come monumento. E incontrare all'improvviso dal vaporetto la colonna del Filarete assurdamente incastonata in un palazzo sul Canal Grande: è la poetica della citazione, della ripetizione differente. «Penso a un'unità o a un sistema fatto solo di frammenti ricomposti», scrive. I postmoderni ci si avventeranno sopra. E infine una visionechiave: gli edifici come struttura portante, addirittura come ossa, scheletro attorno a cui si espande la carne. L'architettura - parole sue diviene quasi una Deposizione laica, un adagiare forme miracolose. Che cosa resta del pensiero e dell'opera di Aldo Rossi, primo italiano premiato nel '90 con il Nobel dell'architettura, il Pritzker Price? Gli elogi <i\YAutobiografia sono molti. Chi lo ammira fa però sempre seguire un «ma». Lo storico dell'architettura al Politecnico di Milano Fulvio brace si dichiara ad esempio suo sostenitore, e s'infervora ad illustrare la sua idea di città «analoga», fatta di grandi tessuti omogenei e di «mostri», edifici prodigiosi, monumenti esemplari colmi di storia e d'identità. Ma aggiunge: «Gli epigoni banalizzano, riprendono gli aspetti più facili». E così fa Giancarlo Consonni, che insegna Urbanistica sempre al Politecnico di Milano: rende prima omaggio al rigore morale ed estetico dell'uomo e dell'artista, ma poi trova che una città tutta sua «sarebbe una necropoli, farebbe paura perché per lui la bellezza massima aspira al silenzio. Ho contato 20 volte la parola "morte" nell'Autobiografìa, e 25 volte la parola "felicità, accarezzata alla Klee come sogno impossibile d'infanzia. Rossi è la sera dell'architettura». Aveva capito che «andiamo a finire dentro una città alla Disnep. Il sen- tomento della fine dell'architettura era il suo rifiuto di aderire all'attuale moda ludica, capricciosa, individualistica. Chi ha sempre avversato Rossi non demorde. Anzi. Lo storico dell'architettura Bruno Zevi, di cui esce ora la Controstoria e storia dell'architettura (Newton Compton, tre volumi, Lire 150.000), gli rimprovera «d'aver sprecato la sua intelligenza tentando di far retrocedere la storia. Il suo neoclassicismo, più o meno postmoderno, riesuma una visione anacronistica dell'architettura: statica, a volumi scatolari, con immagini chiuse, repressive, autoritarie. Io penso invece che l'architettura involucra la libertà, che dopo 5000 anni s'è finalmente emancipata da "ordini'', tabù prospettici e proporzionali, idoli monumentalistici, simmetrie e ripetitività. Architettura per l'individuo e per la società, in breve architettura liberalsocialista, ispirata da Frank Lloyd Wright e da Carlo Rosselli». Come immagina una città alla Rossi? «Un suo spettrale panorama lo si può vedere a Perugia, quartiere Fontivegge. Brividi d'orrore». Chi è oggi più agli antipodi di Rossi? «Niemeyer, Piano, Ando. Soprattutto Gehry. I "rossiani" non ci sono più, per fortuna. Sono morti o sopravvissuti, come Paolo Portoghesi». Un bel tambureggiare d'accuse. Un punto d'equilibrio lo si trova partendo dalle parole di un amico di Rossi, Francesco Dal Co, docente a Venezia e direttore della rivista Casabella, nella cui redazione Rossi lavorò per qualche tempo: l'eredità di Rossi starebbe soprattutto nella sua capacità d'ascolto di una città, del suo cuore e della sua storia. «Una città ha il dono delle maree e delle barriere coralline - dice Dal Co -. Le maree, cioè l'abitudine, il tempo ottuso, nascondono bellissimi paesaggi, che riemergono quando uno come Rossi sa riscoprirli». «Era per le differenze, per il rispetto del genius loci», ricordano i suoi allievi, i suoi eredi più diretti nell'«officina», lo studio milanese, e sono Marco Brandolisio, Giovanni da Pozzo, Michele Tadini e Max Scheurer. Sicché alla fine il miglior Rossi futuro è probabilmente in chi sposa l'umiltà progettuale, segue le fantasie dei luoghi e ne continua i materiali, i colori, le forme, contro ogni omologazione o velleità astrusa. Si salverebbe così quel che resta ad esempio, nelle città e fuori, del nostro bellissimo paesaggio. Claudio Alta rocca L'«Autobiografia scientifica» d'un Maestro che inseguiva coni, cubi cilindri, che identificava la bellezza con il silenzio. L'opposta visione di chi rifiuta ordini, simmetrie, ripeti scientifica» coni, cubi la bellezza sione di chi ripeti LE C

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