NABOKOV LA FELICITA' DI SPIARE
NABOKOV LA FELICITA' DI SPIARE NABOKOV LA FELICITA' DI SPIARE Apochi mesi di distanza da Pnin, esce un altro romanzo di Vladimir Nabokov, L'occhio (Adelphi, pp. lOi, L 14.000), che appartiene alla prima fase della sua narrativa, in lingua russa. Scrìtto nel 1930 a Berlino, apparve alla fine di quell'anno su una rivista russa di Parigi, Sovremennye Zapiski, con il titolo «Sogljadataj», termine militare che significa «spia» o «osservatore». Anni dopo l'autore tradusse in inglese il romanzo, che uscì a puntate su Playboy nel 1965 con il titolo The Eye. Tradotto per la prima volta in italiano da Bruno Oddera nel 1967 nella collana mondadoriana della «Medusa», il romanzo appare ora nella nuova traduzione di Ugo Tessitore, sempre derivata dalla versione inglese, mentre sarebbe stato più interessante tradurlo dall'originale russo, come era accaduto per II dono. Come al solito, lo scrupoloso Nabokov correda il testo di una prefazione in cui illumina l'avventura del bilinguismo e individua il tema di questo breve romanzo o «romanzetto», come lo definisce l'autore con snobistico «understatement», ambientato nella Berlino del 1924-25 tra russi emigrati, in «un'indagine che guida il protagonista in un inferno di specchi e si conclude con le immagini gemelle che si fondono in una». Il narratore, definito «freddo, insistente, instancabile occhio», narra la storia come un osservatore mascherato che svela il suo volto soltanto nelle pagine finali. Istitutore presso una famiglia russa, conosce Matilda, «signora pienotta, disinvolta, dagli occhi bovini», che diventa la sua amante. Mentre legge ai ragazzini un racconto di Cechov, irrompe in casa il marito geloso e passionale, che lo picchia con un bastone. Offeso nella sua dignità, vuole suicidarsi, ma il colpo di pistola infrange solo una brocca d'acqua. Convinto della natura spettrale della sua esistenza, diventa spettatore di se stesso, guarda il passato e riflette intomo al ramificarsi della vita, al «che cosa sarebbe successo se...». Sopra di lui, all'ultimo piano della stanzetta in affitto dove abita, conosce un gruppo di russi emigrati, la bionda dottoressa pacifista Marianna, il barbuto Roman Bogdanovic, il pallido e nerovestito Smurov, ex ufficiale della guardia bianca, e le due sorelle Evgenija e Vanja. Discutono della recente guerra civile in Russia e Smurov racconta la sua rocambolesca fuga da Yalta ma viene smascherato dal fidanzato di Vanja, colonnello dei bianchi. Smurov, attratto, come narratore, dagli occhi miopi di Vanja, lavora come commesso dal libraio Weinstock, che evocagli spiriti su un tavolino a tre gambe e si sente sorvegliato da misteriosi agenti segreti. Splendido il finale, che riecheggia le dostoevskianeAlerrtorie del sottosuolo. Il narratore dichiara la sua inesistenza («esistono solo i mille specchi che mi riflettono») e la sua felicità di uomo «un po' volgaruccio. un po' farabutto», ma dotato di fantasia, erudizione e talento letterario. «Ho capito che l'unica felicità a questo mondo sta nell'osservare, spiare, sorvegliare, esaminare se stesso egli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po' vitreo, leggermente iniettato di sangue». Massimo Romano
Persone citate: Bruno Oddera, Cechov, Massimo Romano, Nabokov, Ugo Tessitore, Vladimir Nabokov
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