Cercasi un Reagan disperatamente

Cercasi un Reagan disperatamente Il partito ha puntato tutto sul caso Lewinsky, ma l'America ha dato retta al Presidente Cercasi un Reagan disperatamente / repubblicani senza idee e senza leader Ri IMPIANTO, nostalgia, voglia di tornare a quei tempi. Cosi i repubblicani hanno celebrato ieri gli 88 anni di Ronald Reagan. «Allora non eravamo solo il partito di Monica Lewinsky e non vogliamo esserlo più oggi». Anche il vecchio senatore Storm Thurmond (96 anni), repubblicano del South Carolina, giustifica la sua ribellione verso la linea dura. Con altri 24 compagni di partito ha detto no all'interrogatorio in aula di Monica Lewinsky, l'ex fidanzatina del presidente Bill Clinton. E così è cambiato il corso e il clima del processo di impeachment che fra pochi giorni avrà la sua fine ingloriosa per i repubblicani. Dopo un anno di guerra a ranghi serrati contro il Presidente, accusato di essere uno spergiuro e di aver ostacolato la giustizia, i repubblicani si sono divisi. Da un lato i deputati e una parte dei senatori dell'ala più conservatrice e maggioritaria del partito, dall'altro un pugno di oppositori più moderati e raziocinanti. Li hanno spaventati gli ultimi due sondaggi, uno della Cnn e l'altro del JVew York TimesCbs. Dopo cinque settimane di processo a Clinton la popolarità del Presidente è in aumento: il 65 per cento degli americani ritiene che sia un buon Presidente. Il dibattito al Senato interessa solo il 18 per cento dei cittadini. Ma c'è di più: il 50 per cento degli elettori repubblicani pensa che la prospettiva di vittoria elettorale nel 2000 sia stata irreparabilmente danneggiata dalla mania di persecuzione contro Clinton. E persino il SO per cento degli elettori repubblicani di tendenza conservatrice si dichiara arcistufo «del Monica-gate», visto che il partito al Senato non ha i voti necessari (i due terzi dei cento senatori) per far approvare l'impeachment del Presidente. Dopo la sconfitta elettorale di novembre nelle elezioni di mid term e di sondaggio in sondaggio i repubblicani moderati hanno cominciato a capire che, in questa situazione, non esiste alcuna possibilità di battere i democratici fra un anno. Clinton, un vero «ladro di programmi elettorali», come lo definì una volta l'ex presidente George Bush, ha fatto sue, in sei anni di potere, tutte le idee del reaganismo, l'ultima grande stagione dei repubblicani: la riduzione delle tasse, la repressione del crimine, la minor presenza dello Stato nell'economia e nella vita dei cittadini, il pareggio del bilancio, la difesa antimissili, l'interventismo in politica estera. Con Clinton l'America è diventata più ricca, l'indice Dow Jones a Wall Street sfiora l'inarrivabile traguardo dei 10 mila, il bilancio dello Stato nei prossimi quindici anni totalizzerà un surplus di 5 mila miliardi di dollari da impiegare nella sicurezza sociale, nella scuola e nella riduzione del debito federale. Per usare una felice espressione di Robert J. Samuelson «la Casa Bianca ha flirtato benissimo con tutti i suoi guai», visto che Bill Clinton, come spiega William Kristoll, direttore di The Weekly Standard (la piccola bibbia settimanale dei conservatori), «è un genio della compartimentazione del cervello, capace di occuparsi simultaneamente del budget e dei guai per Monica». I repubblicani, invece, non sono stati abili nel fare altrettanto. I deputati, per un anno, si sono concentrati sulle accuse, grazie all'ostinazione disperata del loro ex leader Newt Gingrich e alla cocciutaggine del capo della Commissione Giustizia Henry J. Hyde (gli sono crollati i consensi nel suo collegio di Chicago). I senatori più ragionevoli e più bipartisan non hanno saputo sviluppare alcuna politica e si sono lasciati travolgere dalla validità delle proposte e dai successi della Casa Bianca e dei democratici. «Ci hanno sottratto l'agenda», ammette oggi, con un po' di senso autocritico, Newt Gingrich, il principale responsabile del flop repubblicano. «Per Clinton l'impeachment è stato un magico elisir - sostie- ne il senatore Pete Domenici, del Nuovo Messico -, per noi è stato un bel guaio». «Una volta eravamo visti dalla gente come il partito delle idee, di Lincoln e di Reagan. Per una generazione siamo stati tribuni del conservatorismo e tutto ciò ci ha portati al successo spiega Jim Nicholson, neopresidente del partito repubblicano -, ma ora manchiamo di un messaggio coerente». «E siamo visti solo come il partito dell'impeachment», conclude con una certa amarezza David Mclntosh, deputato dell'Indiana. Convinti di guadagnare il sostegno dell'opinione pubblica attraverso una campagna anti-Clinton per «la difesa degli ideali e per la lotta contro il declino morale dell'America» (questo era l'obiettivo degli ideologi della destra repubblicana come l'ex ministro della Pubblica Istruzione William J. Bennett) gli ultraconservatori che hanno guidato il partito in questi mesi si sono accorti, dalle elezioni di novembre in poi, che l'America non li segue più. Che la placida immoralità di Clinton non scandalizza nessuno. Che il Presidente è più simile al cittadino medio dei predicatori della inorai majority. Si è abbassato il livello morale dell'America, «i valori della bohème sessantottesca sono prevalsi sulle virtù civili» (ò il lamento di George Gilder su Commentar}', la rivista ideologica della destra) ma si è abbassato al minimo storico anche il tasso di disoccupazione (4 per cento). Perfino uno degli slogan preferiti dai repubblicani, «meno tasse», non fa più l'effetto di un tempo. Clinton ha rifiutato di ridurre le imposte grazie al surplus e ha scelto di investire nella sicurezza sociale. I repubblicani si sono opposti. Ma il 65 per cento degli americani è favorevole alla scelta compiuta dal Presidente. Proprio Commentary nel suo ultimo numero, ha aperto un dibattito sul clintonismo e il futuro del partito repubblicano. Vi ha preso parte l'elite della intelligencija conservatrice (da Norman Podheretz a Jeane J. Kirkpatrick, da Robert L. Bartley, direttore del Wall Street Journal, a William J. Bennett). Tanti lamenti per i furti di agenda e di idee, una generale ammissione della crisi, ma nessuna proposta nuova. «Dov'è un altro Reagan che ci faccia uscire dai guai?», sembrano chiedersi tutti, a pochi mesi dall'inizio ufficiale della campagna elettorale. Non solo i repubblicani non hanno un programma davvero alternativo a quello onnivoro e generalista dei democratici, ma per ora non hanno il candidato. La destra conservatrice, quella che comanda nel partito, punta su Dan Quayle (quando era vicepresidente si rideva dicendo: se sparano a Bush e lo ammazzano ricordatevi di colpire subito Quayle). Si sono fatti avanti la signora Liddy Dole, il miliardario editore Steve Forbes e l'ex governatore del Tennessee Lamar Alexander. I repubblicani moderati vorrebbero che scendesse in campo il governatore del Texas George W. Bush. Ma Bush tentenna. La destra ha già cominciato ad attaccarlo per il suo passato «di donne e alcol». E Bush, che sarebbe un candidato forte e pericoloso per Al Gore, dice di non volersi rovinare l'esistenza e la famiglia per un posto alla Casa Bianca. Bush sarà in lista solo se la moral majority dentro il partito sarà ridotta al silenzio e se una parte dei conservatori capirà che il suo programma di «compassionate conservatorism» è l'unico in grado di contrapporsi al «practical idealism» di Albert Gore. II vicepresidente, e soprattutto il presidente Clinton e sua moglie Hillary (tornati ad amarsi teneramente, come hanno potuto constatare alcuni monsignori vaticani a Saint Louis) sono, di fatto, in campagna elettorale. I repubblicani invece sono deboli, divisi, senza programmi e senza idee. Non è il modo migliore per affrontare lu sfida del 2000. Carlo Rossella Persino gli elettori di destra sono stufi e nauseati dallo scandalo II 50% di loro si dice già rassegnato a una nuova batosta alle urne nel 2000 Nessun candidato all'altezza di Gore Clinton «ladro di programmi» ha fatto sua l'agenda conservatrice Persino lo slogan «meno tasse» non ha più presa sugli elettori Nella foto grande i due George Bush (padre e figlio) e qui accanto Bob Dole